Michele Testoni: “Bologna, un laboratorio politico ed economico”

MADRID – “Cosa ricordo della ‘Bologna rossa’ dei miei anni universitari? Ricordo una città e una popolazione con grandi e legittime aspettative. Ricordo una città in cui la ‘cosa pubblica’ era valorata quasi al di sopra di qualsiasi altra cosa. Può sembrare retorica ma chi conosce bene la città, chi vi ha vissuto sa che non lo è. Bologna è una città con un forte capitale sociale e una gran voglia di fare politica che si trasformano ciclicamente in insoddisfazione. I bolognesi sono abituati al meglio dell’amministrazione pubblica, al meglio del dibattito universitario, culturale e politico”. Michele Testoni è professore nella prestigiosa università spagnola “IE Business School”. Emigrato a Madrid per amore, ha continuato a mantenere stretti contatti la sua regione. E a conservare amicizie, ricordi e quell’accento emiliano-romagnolo che gli anni trascorsi all’estero non sono riusciti a cancellare.

– L’Emilia-Romagna, Bologna in particolare – ha proseguito -, sono un laboratorio politico ed economico.

Come accennato, Testoni ha lasciato la sua regione per non separarsi da quella che oggi è la sua compagna di vita.

 

– A cosa ti dedicavi in Italia?

– Ero, e sono tutt’ora, professore universitario in varie università – ha risposto -. Ho cominciato a Bologna. Poi mi sono spostato a Roma. Avere un’esperienza professionale e personale, non da turista, a Roma, era un mio sogno. Poi sono venuto a Madrid dove ho proseguito con la docenza universitaria.

 

– Cosa insegni?

– Sono professore di relazioni internazionali – ha spiegato -. La mia specialità sono quelle transatlantiche; quindi, Europa e Stati Uniti. Questo è il mio decimo anno accademico.

 

– Non sei nato in Italia.

– In effetti.

 

 

– Figlio di emigranti, di dirigente di azienda italiana o di diplomatico?

– Sono nato, a Karlskoga, in Svezia, la città di Alfred Nobel. I miei genitori sono entrambi italiani, di Bologna. Vissero in Svezia dal 1974 al 1980. Mio padre fu promosso direttore della filiale scandinava di una multinazionale bolognese.

 

– Quanti anni avevi quando sono tornati in Italia?

– Quattro anni.

 

Ricordi qualcosa di quella tappa della tua infanzia?

– Solo qualche flash… – ha ammesso . Ho qualche ricordo dei colori, gli  odori… ovviamente rafforzati dalle fotografie. I miei genitori sono ancora in contatto con ex colleghi, amici, vicini di casa e io con i figli.  Con loro mi comunico in inglese perché non parlo lo svedese. È bello avere relazioni con persone di vari posti del mondo.

 

– Che cosa ricordi dei tuoi primi anni dell’infanzia a Bologna?

– Il primo vero ricordo nitido è quello della televisione a colori – ci ha detto sorridendo -. In Svezia non c’era. Parliamo di fine anni ‘70 e primi anni ‘80. In Svezia, credo ci fossero solo due canali. In cambio, in Italia era il momento in cui nascevano le televisioni private. Ricordo le liti con i miei nonni, con i miei genitori perché guardavo troppa televisione. Ricordo anche il fare amicizie con bambini che parlavano la mia lingua. In Svezia i miei amici erano i figli dei vicini di casa o dei colleghi di mio padre. Io parlavo in italiano e loro in svedese. Comunque, giocavamo lo stesso… una magica sensazione. Quando i miei sono tornati a Bologna, ho fatto amicizie italiane. Quindi l’asilo, la prima elementare…

 

– Di quegli anni cosa ricordi…

– Ricordo una grande serenità, una grande gioia, amicizie, le partite di calcio, le gite scolastiche a Pisa, sul Lago di Garda, le feste di fine anno… – ha rievocato -. Sono ricordi molto positivi, molto sereni.

 

– Hai frequentato il liceo

– Sì, il Liceo Classico Luigi Galvani in via Castiglione a Bologna.

 

– Il primo amore… come nacque?

– Di ritorno da una gita scolastica – ha commentato -. Naturalmente non mi resi conto di nulla. Furono altri a dirmi guarda che… Stiamo parlando degli anni in cui frequentavo il secondo anno di liceo classico. Fu durante una gita a Parigi.

 

– Insomma, l’atmosfera era propizia…

– Poi – ha proseguito -, questo primo amore fu suggellato alla festa di fine anno, nella discoteca Candejas in zona Corticella, un quartiere nel Nord di Bologna. Bei momenti, bei ricordi – ha affermato con un po’ di nostalgia.

 

– Quali quartieri, quali posti frequentavi a Bologna da ragazzo… con la tua fidanzata?

– Con la prima…

 

– Parliamo della “prima”, e poi anche delle altre, se vuoi…

– … non si può… uhm meglio di no – ha affermato con tono canzonatorio -.  Con la prima, dopo tanti anni di esserci lasciati, ci fu un ritorno di fiamma… diciamo che quella fu una storia con qualche parentesi… d’altronde avevamo 15 anni. Frequentavamo i Giardini Margherita, passeggiate e giri in bicicletta. Lei viveva in centro, a Bologna, nella zona universitaria. La mia famiglia, invece, a San Lazzaro di Savena, più o meno a 20 minuti in autobus oppure in bicicletta. Insomma, era passeggiata in centro, gelaterie, i famosi Colli Bolognesi… Mah! Credo che sia un po’ quello che ha fatto la maggior parte di chi ha vissuto  l’adolescenza a Bologna. In particolare, quelli della nostra generazione.

 

– Poi l’Università…

– L’università a Bologna, come la stragrande maggioranza dei miei amici – ha proseguito nel suo racconto -. Noi bolognesi abbiamo la più antica università d’Europa, forse del mondo, ed anche una delle migliori dell’Occidente. È una grande fortuna, significa un indotto culturale: relazione nuove che si formano ed anche vecchie che restano. Dall’altro lato, però, è anche, forse, una limitazione nei confronti di nostri coetanei di altre città che, per frequentare l’Università, vanno via di casa. Noi ce ne andiamo più tardi. Io andai in Erasmus convintamente – ha sottolineato -. Non vedevo l’ora. Fui, credo, il primo del mio gruppo di amici. Furono 9 mesi di Erasmus a Brighton, in Inghilterra: dall’ottobre del 1997 al giugno del 1998 . Tornai a casa per Natale ma non per Pasqua. Non volli. Vennero i miei a trovarmi. Anche quella fu un’esperienza straordinaria. Fuori da ogni retorica, posso affermare che mi cambiò la vita. L’Erasmus, per me, rappresentò un’esperienza incredibilmente arricchente.

 

Bologna, la Torre degli Asinelli
Bologna, la Torre degli Asinelli. (Foto di fabio balboni da Pixabay)

 

– La tua compagna, quando l’hai conosciuta?

– Eravamo compagni di master a Bologna, nella Università Johns Hopkins – ha ricordato -. All’epoca eravamo solo amici. Dopo qualche anno, per conoscenze reciproche, siamo tornati in contatto e da li è nato l’amore.

 

– Cosa piace a tua moglie di Bologna…

– Più o meno quello che di Bologna piace a tutti – ha commentato -. Innanzitutto, la bonarietà dei bolognesi; non potrebbe essere altrimenti. Poi, la città, in quanto tale, è molto bella. Alla mia ragazza, alla mia compagna, all’epoca e oggi ancora di più, piace Bologna come città medievale, città universitaria, città di commercio dove si può passeggiare e  dove, forse più che in altre città italiane, conoscere persone. La mia compagna ha amicizie bolognesi che conobbe durante l’Erasmus a Dublino; amicizie che mantenne e sviluppò quando eravamo entrambi a Bologna. Per ultimo, la cucina. Non può essere altrimenti: “Bologna la dotta, la rossa e la grassa”.

 

– A parte gli affetti familiari, cosa ti lega a Bologna?

– Bologna è, e continua ad essere per me, un punto importante di riferimento… nel senso di partecipazione sociale – ha spiegato -. Bologna è sempre stata un laboratorio di nuove idee,  di nuove forme di vivere la città, di socialità. In questo momento si collega anche a quello che sono i miei interessi professionali ed extra-professionali. Quindi, parliamo della politica. A Bologna, poi, c’è sempre una grande quantità di eventi sociali, culturali, di mostre, di seminare, di conferenze… È una città viva, è una città che mantiene un forte capitale sociale che, purtroppo, in altre parti d’Italia è già venuto meno o forse non c’è più. La famosa canzone di Lucio Dalla “a Bologna non si perde neanche un bambino”. È vero, il centro di Bologna è abbastanza piccolo, abbastanza facile da girare, le persone sono molto aperte ed è facile entrare in contatto con la vita reale.

 

– Svezia, Italia, Inghilterra, Spagna…

– Sono l’Unione europea – ha affermato sorridendo-. Lo ripeto scherzosamente. La verità è che essere, sentirsi cittadini nel mondo è una cosa stupenda. Si parla dell’identità. L’identità è una cosa complessa.

Cittadino del mondo

La nostra conversazione si è svolta in Piazza Olavide.  Le fronde dei suoi alberi hanno già iniziato a tingersi dei colori dell’autunno. Abbiamo scelto un angolo tranquillo di quella che, in realtà, più che una piazza sembra un piccolo giardino pubblico: bambini che giocano allegri, cani sguinzagliati che si rincorrono mentre i loro proprietari conversano animatamente, anziani che approfittano del sole di un’estate che non vuole lasciarci e il consueto viavai. È la fotografia della quotidianità. I bar nelle vie circostanti sono già aperti; dai ristoranti cominciano ad arrivare gli odori della gastronomia “madrileña”. È il quartiere di una metropoli ma assomiglia tanto a quello di un piccola centro di provincia. Madrid è anche questo.

 

 

– Ti senti una persona sradicata? Chi ha vissuta sempre in un Paese ha radici profonde in quella realtà. Chi, come tanti figli di emigrati, ha avuto la fortuna di  vivere in più paesi, di conoscere altre realtà, a volte sente di non avere radici… questa sensazione l’hai mai avuta? Molti si dicono cittadini del mondo in maniera superficiale, scherzosa ma…

– Io no. Lo dico seriamente. Chissà, forse siamo un’eccezione… – ha tenuto a precisare per poi sottolineare:

– Culturalmente sono italiano. Non lo sono anagraficamente, ma per il mio processo di crescita, per come penso, per come mi comporto, sono inevitabilmente italiano, Emiliano. L’identità è un concetto difficile da declinare. Mia figlia è sia italiana sia spagnola. In casa parliamo tre lingue. Mia figlia sta cominciando a studiare l’inglese. Professionalmente mi esprimo in inglese. Non in italiano, non in spagnolo. Il 90% del mio lavoro è in inglese. Essere cittadini del mondo è un pregio. Gran parte dei nostri amici parla spagnolo. Ma ciò non vuol dire che siano spagnoli. Il padre della  migliore amica di mia figlia, parliamo di bimbe di sette anni, è irlandese. Quando ci vediamo parliamo in inglese, parliamo in spagnolo… credo che sia una ricchezza, un modo per entrare in contatto con altre persone. Ovviamente il mio comportamento, il mio modo di pensare sono inevitabilmente italiani.

 

– Stiamo parlando di integrazione, non di assimilazione.

– Assolutamente.

 

– Mi riconduce al discorso europeo. Sarà possibile, secondo te, cominciare a immaginare  i paesi non come nazioni ma come regioni di un paese più grande: l’Europa? Sarà possibile che i paesi diventino comunità autonome con lingua, cultura e tradizioni proprie, con proprie amministrazioni ma soggette ad un Governo centrale federale?

–  La mia risposta è negativa – ha asserito mentre scuote  negativamente la testa -. Credo che rimarremo ciascuno con le nostre idiosincrasie, le nostre storie, le nostre lingue. Il grande vantaggio degli Stati Uniti è che non hanno una storia e parlano la stessa lingua. Noi abbiamo millenni di storie alle spalle…

 

– C’è il caso della Spagna, lingue diverse, storie simili ma differtenti, con tutte le difficoltà che significa una amministrazione decentralizzata e comunità autonome…

– La nazione europea credo che sia impossibile da fare – ha affermato -. Almeno non nel breve futuro. Forse mia figlia,  i miei nipoti. La nazione europea non esiste. Esisteranno, credo, dei processi di integrazione, mi auguro, sempre più forti. Non solo nell’economia ma in tutti gli aspetti della nostra vita: dal riconoscimento dei titoli di studio all’integrazione professionale. Arrivare, come suggerisci, a un concetto di identità o nazione europea in cui gli Stati diventano regioni, non lo vedo possibile nel futuro prossimo.

 

– Cosa è cambiato con la Covid e ora con la guerra? L’Europa continua ad essere divisa, ma è riuscita a trovare soluzioni comuni. Quali cambi hanno provocato queste nuove realtà?

– Senz’altro hanno provocato un’accelerazione inattesa di processi e fenomeni già esistenti – ha spiegato -. Da un lato, come hai detto, abbiamo trovato, in modo inaspettatamente rapido, efficienti soluzioni per fare fronte a problemi esterni che nessuno si aspettava. Le abbiamo trovate sia nell’ambito socioeconomico e sanitario, sia in quello militare. Il bilancio, credo, è estremamente positivo. Il contorno è molto positivo. Dall’altro lato, credo che il tessuto sociale dei nostri paesi stia diventando sempre più sottile, sempre più rovinato, più teso, con delle fratture. Gli ultimi 10, 12 anni, abbiamo vissuto una serie di crisi che storicamente succedevano una volta ogni cinquanta o cent’anni. Crisi del debito, crisi migratorie, crisi politiche, crisi sanitaria, guerra. E chi regge questo? Penso che sia un miracolo  che stiamo resistendo. Resilienza, questa parola nuova è orribile, ma dice che stiamo dimostrando una forte capacità di resistere e di guardare avanti; una capacità di adattamento. Questo è il bicchiere mezzo pieno. Il bicchiere mezzo vuoto è che in molti paesi d’Europa queste tensioni si stanno manifestando attraverso l’intolleranza.

 

Bologna, panoramica
Bologna, panoramica. (https://pixabay.com/it/users/ritamichelon-2299663)

La passione per la politica

Era inevitabile. Sapevamo che il pericolo era latente. Nonostante il tentativo di evitarlo, la conversazione è andata scivolando lentamente ma inesorabilmente verso la realtà politica dominata, oggi, da concetti e correnti di pensiero che credevamo superati; appartenenti ormai alla storia.

 

– In Spagna assistiamo al processo di consolidamento di un partito politico che ci riporta agli anni del franchismo. In Svezia, si è imposto un partito di estrema destra… in Ungheria… ora in Italia…  para ci sia il desiderio di governi autarchici… di governi che si definiscono eufemisticamente democrazie illiberali… con pulsioni sovraniste…

– Ci sono due spiegazioni – ha affermato -. La prima è pratica ed economica. Stiamo vivendo il cambio di un ciclo. L’occidente non è più il centro del mondo. La regione che s’imporrà è l’Estremo Oriente. Quello che vi accadrà determinerà il corso dei decenni a venire. Come abbiamo visto, molte risorse economiche si sono spostate. La globalizzazione in molti casi si è tradotta in delocalizzazione. Una fascia considerevole di quello che era la piccola e media borghesia si è impoverita. Ed è, quindi, arrabbiata. Dall’altro lato  – ha proseguito – esiste una spiegazione culturale. Un mondo conservatore si sta ribellando. Fino a qualche anno fa se ne stava nascosto, accettava suo malgrado quello che noi chiamiamo giustamente la progressione dei diritti: quelli  degli omosessuali, delle donne, dell’immigrazione. Accettava un certo cosmopolitismo, una certa integrazione di valori, di costumi.

È evidente che Testoni ora si sente più comodo. Non solo perché non è più la sua storia personale il centro della conversazione ma soprattutto perché l’argomento lo appassiona. Non a caso, in passato, è stato consigliere di San Lorenzo di Savene e, a Madrid, è stato per anni Segretario Generale del “Circolo del Partito Democratico Sandro Pertini”, di cui è attualmente Presidente.

– Abbiamo assistito alla nascita di movimenti demagogici, sul lato dell’estrema sinistra – ha rilevato -. Ora assistiamo alla riconfigurazione dell’estrema destra attraverso formazioni nazional-conservatrici, critiche del processo di integrazione europea e della globalizzazione. Rivendicano concetti come identità, come religione, come razza. Sono mondi che coesistono. In che modo questa contraddizione si svilupperà negli anni a venire è difficile saperlo.

Da professore universitario, da analista dei fenomeni politici e della loro evoluzione, da esperto in relazioni transatlantiche, Testoni osserva la realtà italiana con un’ottica critica. Il trionfo dell’estrema destra in Italia, peraltro annunciato da tutti i sondaggi demoscopici, non l’ha sorpreso. E neanche lo ha sorpreso il passo in falso della sinistra. A questo proposito, ha sostenuto che non è assolutamente vero che il Partito Democratico abbia perso la sua essenza o che manchi di un’anima. Al contrario, considera che il Partito Democratico abbia una sua identità ben definita. È convinto che, al di là di questioni strutturali e polemiche interne, i veri problemi del partito consistono nella difficoltà per “comunicare” e nel “tradurre le parole in fatti”.

Redazione Madrid

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