Birmania: altri 6 anni di carcere per Aung San Suu Kyi

Manifestanti portano manifesti con l'immagine dell'ex presidente di Birmania Aung San Suu Kyi in Yangon, Archivio. ANSA/EPA/STRINGER

BANGKOK.  – Un’altra condanna, stavolta per quattro accuse di corruzione, e per Aung San Suu Kyi le prospettive di tornare mai in libertà si fanno ancora più remote: l’ex leader di governo in Birmania, detenuta dal golpe del febbraio 2021, si è vista ieri allungare di sei anni la pena di undici anni accumulata nei mesi scorsi per altre condanne che la comunità internazionale ritiene parte di un deliberato piano della giunta militare di eliminare dai giochi politici la Signora, e con lei qualsiasi speranza di veder ripristinata la fragile democrazia che i generali hanno strozzato sul nascere.

Suu Kyi (77 anni) è stata giudicata colpevole di aver abusato della sua posizione di leader del governo per affittare terreni pubblici a prezzi scontati a Yangon e nella capitale Naypyidaw, e per aver lì costruito la sua residenza privata con soldi provenienti da donazioni alla fondazione di beneficienza intitolata alla madre. Per ognuno dei quattro capi di imputazione, Suu Kyi è stata punita con tre anni di reclusione.

Il conteggio di sei anni di reclusione in totale si spiega con il fatto che le pene relative ai tre procedimenti relativi a Naypyidaw saranno scontate contemporaneamente. Ma è una magra consolazione: in totale, Suu Kyi ha davanti a sé 17 anni in carcere. E con un’altra decina di processi ancora in corso, il conteggio finale potrebbe arrivare a oltre un secolo di reclusione.

Le reazioni della comunità internazionale sono state immediate. “Deploro l’ingiusta condanna di Aung San Suu Kyi”, ha scritto su Twitter Josep Borrell, l’alto rappresentante per gli esteri dell’Unione europea, esortando il regime a “rimetterla in libertà immediatamente e senza condizioni”.

Il dipartimento di Stato Usa ha parlato di “affronto alla giustizia e alla legge”, e Human Rights Watch ha definito l’odissea legale di Suu Kyi “parte del metodico assalto della giunta militare ai diritti umani nel Paese”. Proprio ieri, inoltre, l’inviata speciale dell’Onu in Birmania, Noeleen Heyzer, è arrivata nel Paese per far fronte alla “situazione in deterioramento”.

Il team legale di Suu Kyi ha già annunciato di voler fare ricorso, ma è palese che la giunta guidata dal generale Min Aung Hlaing ha ormai deciso di rimuovere l’unica vera rivale política per via giudiziaria. Il regime, che giustificò il golpe con i presunti brogli nelle elezioni del 2020 con cui la Lega nazionale per la democrazia di Suu Kyi trionfò per la seconda volta consecutiva, ha promesso di far tornare la Birmania al voto il prossimo anno. Anche se mantenesse l’impegno, nel frattempo può prepararsi il terreno con mille restrizioni ai partiti democratici, e già si ventila l’ipotesi che il partito di Suu Kyi venga messo al bando.

Anche senza contare il destino della Signora, il pugno di ferro non si è allentato nell’anno e mezzo trascorso dal golpe, anzi. A fine luglio, l’esecuzione di quattro attivisti per la democrazia – tra cui un ex parlamentare fedele a Suu Kyi – ha confermato come i militari siano sordi alle pressioni internazionali.

Si calcola che almeno 2.200 persone siano state uccise dalla giunta, e la resistenza armata della popolazione si è estesa alle campagne, in un’atmosfera che viene ormai descritta come una guerra civile. Mai vista in pubblico dal giorno del golpe e con il serio rischio di non tornare più in libertà, Suu Kyi assiste impotente al crollo del suo sogno di una Birmania democratica.

(di Alessandro Ursic/ANSA).

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