Johnson sfida la rivolta in casa Tory: “Non mi dimetto”

Il premier britannico Boris Johnson.
Il premier britannico Boris Johnson. (ANSA)

LONDRA.  – Ormai è solo questione di come e quando. Boris Johnson ha le sembianze di un cadavere político ambulante, ma resta barricato dietro il portoncino al numero 10 di Downing Street, determinato a “combattere” e a resistere finché potrà, mentre il suo stesso governo si sfarina, metà dei deputati della maggioranza Tory gli ritira la fiducia e molti dei ministri rimastigli fedeli fino a oggi lo implorano faccia a faccia di gettare la spugna.

Lo scandalo a sfondo sessuale che ha travolto Chris Pincher, ex deputy chief whip della compagine in fama di molestatore seriale di uomini, e le bugie che il premier britannico pare abbia poi incaricato di dire al riguardo, hanno fatto da detonatore finale all’esplosione della crisi, dopo l’ondata di passi falsi e vicende anche più gravi (come il cosiddetto Partygate) che negli ultimi mesi hanno investito il portabandiera della Brexit: messo con le spalle al muro, per quanto protetto dalle tutele quasi blindate che il sistema britannico assicura a un leader eletto, ben prima di poter vedere fuori gioco quel Vladimir Putin contro il quale l’invasione russa dell’Ucraina gli aveva offerto il destro di misurarsi in veste di capofila della linea più dura fra gli alleati occidentali.

Le dimissioni di due pesi massimi del consiglio di gabinetto, il cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, e il titolare della Sanità, Sajid Javid, non sono rimaste senza seguito; a dispetto dei toni di sfida con cui a mezzogiorno BoJo si è presentato al Question Time del mercoledì alla Camera dei Comuni deciso a non mollare contro tutto e (quasi) tutti.

“Il compito di un primo ministro nelle difficili circostanze attuali è di andare avanti come io intendo fare, avendo ricevuto un mandato popolare colossale” alle elezioni di fine 2019, ha provato a replicare sotto agli attacchi del leader laburista Keir Starmer: che non ha esitato a dargli ancora una volta del “bugiardo”, bollando come “patetica” la sua resistenza a oltranza e puntando il dito allo stesso tempo sui ribelli Tories dell’ultim’ora, raffigurati alla stregua di “topi in fuga dalla nave che affonda”.

Mentre l’aula ribolliva di battute irridenti al grido di “bye Boris” di fronte agli interventi critici intonati all’epitaffio (“il troppo è troppo”) anche di qualche ex alleato conservatore come Javid. E il capogruppo degli indipendentisti scozzesi dell’Snp, Ian Blackford, fra un appello alla secessione della Scozia e l’altro, arrivava a paragonare il Johnson di oggi al “pappagallo morto” di un celebre sketch comico dei Monty Python.

Quasi una constatazione, più che una profezia, certificata dalla slavina trasformatasi in poche ore in valanga delle defezioni fra i ranghi del governo: una quarantina almeno, fra posizioni junior e senior di una compagine che in totale conta oltre 150 poltrone e strapuntini. Ma nella quale a pesare davvero sono i circa 30 membri del consiglio di gabinetto (una ventina con diritto di voto): come Sunak, come Javid, o come Michael Gove – già sodale di Boris nella campagna referendaria pro Brexit del 2016 e fino a oggi ministro responsabile dello strategico portafogli del Livellamento delle Diseguaglianze Territoriali -, terza figura di spicco a tagliare i ponti nelle scorse ore, con la tempistica impeccabile dello specialista in accoltellamenti politici.

La mossa di Gove, già capace di voltare le spalle a Johnson almeno un paio di volte nel passato, è parso il rintocco del de profundis. Tempo un’ora ed è scattato anche l’annuncio di una missione di una mezza dozzina di altri ministri, fra i più vicini al premier (compreso ‘l’iracheno’ Nadhim Zahawi, promosso cancelliere dello Scacchiere appena ieri sera e ora pronto a unirsi alla lista degli aspiranti successori allo scranno numero 1), incaricati di presentarsi in processione a Downing Street per convincerlo alla resa, alla via d’uscita delle dimissioni “spontanee” suggerita per ultima persino da una lealista come la titolare dell’Interno, Priti Patel.

Una via che per ora l’interessato insiste tuttavia a rigettare, ribadendo in serata in tono di sfida di non avere alcuna intenzione di “lasciare il Paese alla mercé delle questioni enormemente importanti” che deve affrontare. E anzi silurando lui Gove.

Se nulla cambierà nelle prossime, l’unica alternativa sarà a questo punto quella di un bagno di sangue interno al partito, segnata da una modifica dello statuto ad hoc per poter ripetere a stretto giro il voto sulla sfiducia alla leadership Tory di Johnson dopo appena un mese da quello superato per il rotto della cuffia a inizio giugno, e non dopo un anno come prescriverebbero le regole attuali.

Salvo non ipotizzare l’avvitamento della crisi fino alla prospettiva – devastante al momento per il partito di governo – di elezioni anticipate che a parole (fra guerra in Ucraina, inflazione e venti di crisi economica globale) tutti giurano di non volere. Almeno per ora.

(di Alessandro Logroscino/ANSA).

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