Amnesty: boia torna al lavoro nel mondo dopo pausa Covid

Manifestazione contro la pena di morte davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti a Washington.
Manifestazione contro la pena di morte davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti a Washington. Archivio .(ANSA)

ROMA.  – Nel 2021 il boia è tornato alacremente al lavoro in tutto il pianeta, dopo che nel 2020 la macchina della pena di morte era stata messa in pausa, almeno in parte, o rallentato con le restrizioni in vigore contro il Covid-19.

Lo scrive Amnesty International, che nel suo Rapporto annuale sulla pena di morte nel mondo, di cui ha diffuso delle anticipazioni in un comunicato, denuncia nell’anno scorso almeno 579 esecuzioni note in 18 Paesi, oltre a un numero imponderabile, stimato nell’ordine delle migliaia, in particolare in Cina, in Corea del Nord e in Vietnam, Paesi che non rendono pubblici questi dati.

Un drammatico rimbalzo rispetto all’anno precedente, ma – dato più incoraggiante – in calo sul lungo periodo, tanto da rappresentare il secondo numero totale di esecuzioni più basso registrato da Amnesty dal 2010.

Del totale di 579 esecuzioni note, la fetta più grande – dice Amnesty – spetta all’Iran, con 314 (dalle 246 del 2020): una cifra in crescita per l’aumento delle pene di morte inflitte per traffico e spaccio di droga e violazioni di tipo religioso.

Incrementi macroscopici sono avvenuti in Arabia Saudita (passata da 27 del 2020 a 65) e con un picco nel 2022 lo scorso marzo con 81 in una sola giornata, in Somalia (da almeno 11 a 21), in Sud Sudan (da 2 a 9), Yemen (da 5 a 14), Bielorussia (almeno una), Giappone (3) ed Emirati arabi (una almeno).

“Dopo un calo del totale delle esecuzioni nel 2020, Iran e Arabia Saudita hanno di nuovo intensificato lo scorso anno il loro uso della pena di morte, violando anche senza vergogna le restrizioni imposte dalla legislazione internazionale sui diritti umani (che proibisce l’uso della pena capitale per reati diversi dall’omicidio volontario, ndr). Il loro desiderio di far lavorare il boia non ha mostrato segni di placarsi neanche nei primi mesi del 2022”, ha dichiarato Agnès Callamard,  segretaria generale di Amnesty International, citata nel comunicato.

Una volta tolte le restrizioni anti-pandemia, nel 2020 i giudici hanno comminato 2.052 sentenze di morte lo scorso anno in 56 Paesi: un dato in crescita del 40% sul dato del 2020, con forti incrementi in particolare in Bangladesh (181 dalle 113 del 2020), India (144 da 77) e Pakistan (129 da 49).

Un altro triste dato registrato da Amnesty è quello delle esecuzioni come strumento di repressione politica contro dissidenti, manifestanti e minoranze etniche o religiose. In Birmania – denuncia l’associazione per i diritti umani – circa 90 persone sono state condannate a morte “arbitrariamente” sotto la legge marziale imposta dai militari golpisti, alcune con sentenza in contumacia. Anche l’Egitto, denuncia l’Ong, ha continuato a ricorrere alla tortura e alle “esecuzioni di massa, spesso dopo processi ingiusti”.

A fronte di questi segnali negativi, nota infine Amnesty, c’è qualche segnale incoraggiante: ai Paesi che hanno formalmente abolito nel 2022 la pena capitale (anche se in alcuni casi la legislazione non è ancora in vigore) figurano la Sierra Leone e il Kazakistan, mentre la Papua Nuova Guinea e la Malaysia hanno annunciato rispettivamente un referendum e una legge ad hoc entro il 2022, come la Repubblica Centrafricana e il Ghana, che hanno annunciato processi di revisione.

Negli Stati Uniti, la Virginia è diventata il 23/esimo stato abolizionista della pena di morte, il primo del Sud degli Usa. Moratorie sulle esecuzioni sono in vigore a livello federale Usa e anche in Gambia, Kazakistan, Malaysia, Russia e  Tagikistan.

(di Fabio Govoni/ANSA).

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