Schiaffo a Johnson dal voto locale. Terremoto in Ulster

Il premier britannico Boris Johnson.
Il premier britannico Boris Johnson. (ANSA)

LONDRA.  – Non è bastata la riverniciatura alla Winston Churchill su una scena internazionale resa trágica dall’invasione russa dell’Ucraina, né l’endorsement da “amico ad amico” di Volodymyr Zelensky, ad evitare a Boris Johnson lo schiaffo elettorale – tanto atteso quanto sonoro – incassato dal suo partito conservatore nel voto amministrativo di medio termine che ieri ha coinvolto mezza popolazione del Regno Unito.

Uno schiaffo non da ko per il primo ministro e la sua poltrona, nell’immediato, ma che ha scaricato senza dubbio sulla parrocchia Tory i contraccolpi della diffusa irritazione innescata fra la gente dal coinvolgimento in prima persona di BoJo nello scandalo Partygate dei ritrovi organizzati in barba alle regole anti Covid a Downing Street in epoca di lockdown, oltre che da uno scenario economico segnato dal ritorno dell’inflazione e del caro bollette.

Le conseguenze si sono fatte sentire in particolare nella nazione dominante del Regno, l’Inghilterra, conquistata in lungo e in largo dal premier della Brexit alle trionfali politiche di fine 2019. Dove invece sono arrivati dispiaceri in serie per il partito di governo nel conteggio odierno delle schede riguardanti il rinnovo di 146 consigli comunali e locali. Alla fine i Tories ne hanno persi una decina sugli oltre 30 che guidavano dal 2018, lasciando per strada il seggio di circa 300 consiglieri su quasi 2000. Meno dei 550 delle previsioni peggiori, comunque parecchi.

A rischiare di destabilizzare il Paese è in realtà soprattutto l’epilogo del voto cruciale per il Parlamento locale di Belfast: con l’inedito sorpasso accreditato ai repubblicani cattolici dello Sinn Fein (sulla carta sostenitori della riunificazione con Dublino) come primo partito e forza di maggioranza relativa dell’Irlanda del Nord sugli unionisti protestanti del Dup destinato ad aggravare le tensioni già riaccese dal dopo Brexit; e a metter a dura prova i precari equilibri di condivisione del potere frutto degli storici accordi di pace del Venerdì Santo 1998. Mentre a minacciare il Partito conservatore e il governo centrale è soprattutto lo scivolone di Londra: metropoli di cui Boris è stato per 8 anni sindaco popolare e dove i suoi cedono ora al Labour 3 Municipi circoscrizionali simbolo (fra 32 complessivi della capitale) come quello di Westminster (cuore dei palazzi del potere), di Barnet (a forte presenza ebraica) e di Wandsworth (feudo caro a Margaret Thatcher).

Filotto che del resto non consente di decretare una vittoria piena neppure per l’opposizione laburista neo-moderata di sir Keir Starmer. Il quale esulta evocando un elettorato stanco di “bugie” e “un Paese che ha diritto ad avere di meglio al governo”. Senza poter tuttavia cancellare d’aver approfittato dell’arretramento dei Conservatori in misura inferiore – stando ai calcoli del professor John Curtice, sondaggista supremo d’oltre Manica – rispetto ai riemergenti Liberaldemocratici o ai Verdi in Inghilterra; o agli indipendentisti dello Scottish National Party (Snp) in Scozia.

Mentre il bottino di voti in numeri assoluti non riesce a raggiungere quello portato a casa alla amministrative del 2018 con Jeremy Corbyn; e si rivela al massimo parziale il recupero di quei suffragi perduti nell’area dell’ex ‘muro rosso’ del centro-nord inglese senza i quali il Labour non può neppure sperare d’imporsi alle prossime elezioni legislative nazionali e puntare al controllo della Camera dei Comuni.

Tutto questo senza considerare come Starmer si ritrovi a fare i conti con un suo potenziale mini Partygate, che minaccia di far apparire ipocrita la severità verso Johnson: vista l’apertura giusto oggi di un’inchiesta di polizia contro di lui sulla base del sospetto d’aver a sua volta violato le restrizioni Covid nell’aprile 2021 durante una bevuta di birra collettiva a margine di un comizio a Durham forse non troppo diversa – fra smentite e contraddizioni – dalla faccenda costata al premier Tory una clamorosa multa da Scotland Yard.

Ecco quindi che Johnson, pur rimesso sotto pressione dal rinnovato malumore dei compagni di partito che gli imputano la sconfitta, può ancora sperare di resistere alla prospettiva di una sfida interna alla sua leadership e all’ombra delle dimissioni. Il colpo è stato “duro”, ammette, “in alcune parti del Paese”; ma altrove è andata meglio del previsto, minimizza, insistendo di essere “determinato ad andare avanti” al timone del governo per portare il Paese fuori dalle secche della pandemia, del caro energia, oltre che della “minaccia russa” all’Europa. Almeno fino a quando gli sarà permesso di farlo.

(di Alessandro Logroscino/ANSA).