Covid: due anni dal lockdown, ora più sicuri e liberi

Il campanile della Basilica di San Marco illuminata con le parole"Risorgiamo Italia"
Il campanile della Basilica di San Marco illuminata con le parole "Risorgiamo Italia". ANSA/ANDREA MEROLA

ROMA. – Due anni fa arrivò il giorno in cui l’Italia riscoprì una parola familiare solo a nonni e reduci, coprifuoco, in cui girò la chiave di casa dall’interno e si chiuse dentro, perchè fuori c’era il virus. Poi, quasi subito in realtà, imparammo a chiamarlo ‘lockdown’. Ma sul momento era solo una regola, semplice e inaudita insieme, di cui subito s’appropriarono i social in forma di hashtag: #iorestoacasa.

Oggi, col Paese tornato a ritmi e abitudini non troppo diverse dalla normalità, può essere facile voler dimenticare quei tre mesi in cui il Paese, più di tanti altri, scoprì di essere davvero al centro esatto di una pandemia globale. Che il Coronavirus non era più, come nella vulgata, “un problema cinese”, ma ci riguardava da vicino. Si aspettava, come un programma di prima serata, il discorso dell’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Ma quando arriva?”, “E’ in ritardo”, “Eccolo che comincia”.

Il 9 marzo 2020, e poi coi decreti successivi, l’Italia fu blindata: un’unica zona rossa. E si chiuse a casa. D’altronde, fuori c’era ben poco da fare. Basta fare un confronto con la libertà dell’Italia di oggi: chiuse le scuole, chiusi i bar, i ristoranti, le palestre, i negozi. Chiusi i cinema, i teatri, i luoghi di sport. Oggi quasi tutti più malandati nei bilanci, ma in piena attività.

Due anni fa invece in tutte le case si stampavano le autocertificazioni, passaporti per i propri quartieri: si esce solo per motivi di salute o per fare la spesa. Erano i giorni delle code infinite, un passo alla volta, davanti ai supermercati, gli scaffali semivuoti, il lievito per il pane che andava a ruba e le ‘penne lisce’ neglette. Qualcuno usciva per lavorare, nelle strade deserte, su piazze piene solo di ombre come paesaggi di De Chirico o nei centri storici senz’auto che sembravano immagini di manuali di storia dell’arte. Una sera, al tramonto, piazza Navona fu invasa dalle note di un giovane chitarrista. Altrimenti, a casa si vive e a casa si lavora.

Perché il lockdown è stato anche il momento in cui l’Italia scoprì lo smartworking, e applicazioni web fino a quel momento utilizzate solo da pochi divennero d’uso comune anche per il bambino e per la nonna. Ma fu anche il momento in cui gli italiani scoprirono che i metri quadrati del proprio appartamento di colpo erano diventati troppo piccoli, oppure troppo grandi per la propria solitudine.

Il luogo simbolo del lockdown del 2020 quindi fu il balcone: dal balcone ci si affacciava, si parlava, si cantava, si gridava. Si intonava l’inno nazionale, dandosi appuntamento a una cert’ora. Si intrecciavano relazioni. I video delle facciate italiane, tricolori a decine, fecero il giro del web e del mondo. Perché in quel pugno di settimane, nonostante le ironie, i meme, i cani stremati da infinite passeggiate più per i padroni che per i quadrupedi, l’Italia seppe in gran parte stracciare tanti luoghi comuni sulla presunta indisciplina dei suoi abitanti.

“Andrà tutto bene, ne usciremo migliori” gli slogan del momento, ripetuti su centinaia di lenzuoli appesi alle finestre. E’ andata davvero così? L’emergenza Covid, di cui il lockdown è stato il picco, non si è limitata a colpire i polmoni. “Ha lasciato il segno” dicono, più o meno in coro, gli specialisti.

Specie psicologi e psichiatri hanno rilevato in particolare nei più piccoli e negli adolescenti un numero crescente di sintomi allarmanti di ansia, depressione, paura, somatizzazioni. Un aumento dei disturbi alimentari. Genitori più aggressivi e tesi anche nel rapporto con i figli, o con il partner: gli avvocati divorzisti segnalarono a valle del lockdown un’impennata di richieste di separazione dovuta alla convivenza forzata. Tante attività economiche, magari appena nate, dovettero gettare la spugna.

E dunque se oggi possiamo passeggiare, andare al cinema, prendere il caffè o visitare un museo, forse la persona accanto a noi in fila, o davanti a noi allo stadio è proprio una di quelle che porta ancora i segni, fisici, psicologici ed economici, di quando l’Italia, tutta insieme, chiuse la porta a chiave. E restò a casa.

(di Gabriele Santoro/ANSA)

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