Zaki deluso, l’udienza decisiva slitta al 6 aprile

In una foto d'archivio una manifestazione a favore della liberazione di Patrick Zaki.
A cardboard cutout of Patrick Zaki during the silent flashmob to demand the release of the researcher Patrick Zaki from jail in Egypt, Rome, Italy, 23 February 2020. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

MANSURA.  – É stata grande la delusione per Patrick Zaki. A Mansura doveva essere l’udienza decisiva, quella dell’assoluzione e del via libera per un ritorno a Bologna dopo due anni di calvario carcerario e tribunalizio.

É stata invece la mattinata del ritorno nella gabbia degli imputati, in un’aula che ha chiuso le porte a diplomatici e giornalisti e dove un giudice monocratico ha rinviato tutto, senza motivo, al 6 aprile.

Due mesi. L’unico sollievo è che lo studente egiziano dell’Università di Bologna rimarrà a piede libero dopo la scarcerazione disposta l’8 dicembre, ma senza la possibilità di tornare in Italia. E con l’inquietante minaccia di altri cinque anni di carcere per aver scritto un articolo su alcuni casi di discriminazioni di cristiani egiziani che configurerebbe il reato di “diffusione di notizie false” ai danni dell’islamico Egitto.

Il ricercatore in studi di genere dell’ateneo bolognese si era svegliato fiducioso: la sua legale Hoda Nasrallah, alla vigilia, aveva parlato di udienza “decisiva” e lo spesso Patrick, ancora nelle ultime ore, diceva di aspettarsi una decisione positiva già oggi, magari solo da formalizzare nei prossimi giorni. I suoi pensieri correvano dichiaratamente verso l’aeroporto, piazza Maggiore e il suo ateneo bolognese. E invece è toccato a lui stesso, con una delusione che traspariva negli occhi, il compito di annunciare ai giornalisti il rinvio al 6 aprile: “Un’attesa ancora enormemente lunga”, come ha sottolineato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia.

“L’udienza non è durata a lungo, forse 10 o 15 minuti”, ha raccontato Patrick riferendo che in sostanza è servita solo a far respingere un’istanza della sua legale: la richiesta di far entrare in aula giornalisti e diplomatici di Italia, Usa, Germania, Spagna e Belgio, recatisi a Mansura per far sentiré fisicamente la pressione dei rispettivi ministeri in rappresentanza anche dell’intera Ue.

Invece, nonostante le insistenze, i rappresentanti dei cinque Paesi hanno dovuto allontanarsi dal Palazzo di Giustizia della città sul delta del Nilo e attendere la fine dell’udienza bevendo tè nel vicino Caffé Andrea.

É stato in questo temporaneo cono d’ombra dell’attenzione internazionale che l’attivista per i diritti umani e civili ha colto un sinistro monito della magistratura egiziana: la gabbia degli imputati del tribunale di Mansura, con le sue fitte grate e le sue solide sbarre, era sempre lì ad attenderlo. E lui ci è dovuto entrare di nuovo per circa mezz’ora, in cappotto e cravatta blu, proprio come nelle prime tre udienze quando invece doveva indossare la tuta bianca di chi in Egitto aspetta il giudizio. Ad assisterlo c’erano i suoi legali, l’avvocato di fiducia dell’ambasciata d’Italia e quella dell’Ue. Ma, per sempre con lui, sono anche i tetri ricordi dei 22 mesi di custodia cautelare passati a dormire per terra, tra mal di schiena e angoscia del Covid, nel braccio imputati del famigerato carcere cairota di Tora.

Ecco perché la delusione è stata mitigata dal sollievo. “Sono libero ed è un bene”, ha constatato Patrick, quasi a farsi coraggio da solo. “Speriamo che qualcosa di buono accada il 6 aprile, voglio essere di nuovo a Bologna il prima possibile”, ha detto, anche se la giustizia egiziana sta “provando a prender tempo per la decisione finale”. Insomma, come ha esortato lui stesso, “incrociamo le dita”.

“Si interrompa questo ostracismo e si affermi la giustizia, per lui e Giulio Regeni”, ha scritto sui social Laura Boldrini, presidente del Comitato della Camera sui diritti umani nel mondo. Mentre Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana, è tornato a sollecitare il governo a conferire a Patrick la cittadinanza italiana.

(dell’inviato Rodolfo Calò/ANSA).

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