Dal carcere all’Inferno, in tre fuori dalle celle per recitare Dante

Locandina del "Dante Alighieri latitante fiorentino"
Locandina del "Dante Alighieri latitante fiorentino"

ROMA. – Dalle celle di massima sicurezza del carcere di Rebibbia all’Inferno di Dante, scalando i gironi della colpa, dell’espiazione della pena e, soprattutto, del riscatto. Dopo avere incontrato Shakespeare, in ‘Cesare deve morire’ dei fratelli Taviani interamente girato in cattività, Filippo, Giovanni e Francesco, tre detenuti del carcere di Rebibbia, affronteranno un altro messaggero dell’immortalità del pensiero, Dante appunto, ma questa volta lo faranno assaporando la libertà, quella vera, anche se provvisoria: dopo quasi 30 anni usciranno per tre ore, con un permesso di lavoro, per recitare il prossimo 25 novembre all’Università Roma Tre brani dell’Inferno in occasione del convegno internazionale curato della pontificia Commissione dantesca.

I tre detenuti, che fanno parte della compagnia del Teatro Libero di Rebibbia, sono da quasi trent’anni nel reparto di massima sicurezza, quello che ospita i condannati per camorra, mafia, ‘ndrangheta, dopo una condanna per associazione a delinquere. Anni duri in cui hanno incontrato la recitazione come surrogato di vita e libertà, la finzione di essere altro e immaginare il mondo oltre le sbarre.

Reciteranno, davanti ad una platea dove ci sarà anche il cadinal Ravasi, i versi di tre grandi peccatori della Commedia, ovvero Paolo e Francesca, il Conte Ugolino e Ulisse, e lo faranno nel loro dialetto di origine, il calabrese, il siciliano e il napoletano.

Una versione potente dell’Inferno, con la regia di Fabio Cavalli, che è specchio del carcere, i gironi come le sezioni, quelle più dure come la massima sorveglianza e quelle meno, i personaggi dolenti e umani come i detenuti: un viaggio negli sbagli dell’umanità, un percorso in una città dolente dove la condanna non è mai priva di sentire umano e compassione.

Insomma, il carcere come l’Inferno è popolato da ‘la perduta gente’ ma l’errore prevede sempre la via del riscatto. Per questo sui grandi peccatori, talmente umani che parlano in dialetto, si posa sempre la pietas e il carcere da luogo di detenzione diventa possibilità di redenzione.

Temi, quelli del peccato, dell’errore, del dolore, che i tre attori detenuti avevano affrontato anche in ‘Cesare deve morire’, il film dei fratelli Taviani tutto girato intra muros, una riduzione carceraria del ‘Giulio Cesare’ di Shakespeare. Anche in quel caso si erano cimentati in dialetto affrontando l’orrore e la dignità di chi sbaglia e uccide, il verso immortale e il fine pena mai, i versi di Shakespeare tra assassini o trafficanti, redenti o meno non importa, perchè alla fine è soprattutto umanità.

Ora affronteranno questo ‘Dante Alighieri latitante fiorentino’ da liberi, seppur per poco e grazie all’applicazione dell’articolo 21, ovvero il permesso lavorativo che di fatto ora riconosce l’importanza del percorso teatrale fatto in carcere. Tre ore non sono molte ma per loro saranno sono sufficienti per ‘riveder le stelle’.