“Al-Qaida può attaccare gli Usa nel giro di un anno”

Soldati dell'ersercito nazionale afgano. Immagine d'archivio. EPA/WATAN YAR

WASHINGTON.  – Joe Biden, ma anche l’intelligence, finiscono sotto il “fuoco amico” del Pentagono sulla crisi afghana.  Messi sotto torchio dal Congresso per la prima volta dopo il caotico ritiro da Kabul, i vertici militari americani hanno dovuto difendersi da una raffica di domande insidiose.

Ma, sotto giuramento davanti alla commissione forze armate del Senato, il capo del Pentagono Lloyd Austin, il capo di stato maggiore congiunto Mark Milley e il capo del comando centrale Kenneth McKenzie non sono riusciti ad evitare di mettere in imbarazzo il commander in chief, smentendolo su almeno due punti cruciali.

Il primo è che Al Qaida non è stata sconfitta, come ha affermato il presidente, ma “è ancora in Afghanistan” e potrebbe tornare a colpire gli Usa nel giro di un anno. Il secondo è che gli consigliarono di tenere almeno 2500-3500 soldati nel Paese per garantire la stabilità del governo e dell’esercito, la cui rapidità di collasso “non fu capita” dagli 007 americani e “ci prese tutti di sorpresa”. Uno scaricabarile che rischia di minare la solidità dell’amministrazione.

“Gli Stati Uniti dovranno continuare a proteggere i loro cittadini da attacchi terroristici provenienti dall’Afghanistan, ora la missione sarà più dura”, ha avvisato il capo di stato maggiore congiunto Mark Milley.

“Una Al-Qaida riorganizzata o un Isis con aspirazioni ad attaccare gli Usa è una possibilità  davvero reale, e tali condizioni, inclusa l’attività in spazi non governati, potrebbero presentarsi nei prossimi 12-36 mesi”, ha messo in guardia dopo aver sostenuto che “i talebani erano e  rimangono un’organizzazione terroristica” e che “non hanno ancora rotto i loro legami” con il network fondato da Osama bin Laden.

Milley e McKenzie hanno inoltre contraddetto Biden riferendo che la loro raccomandazione era di mantenere da 2.500 a 3.500 militari, circostanza invece negata dal presidente in un’intervista in agosto con Abc: “Nessuno me lo disse, che io ricordi”, assicurò. I vertici militari si sono rifiutati di entrare nei dettagli delle loro conversazioni col commander in chief ma tutti hanno confermato che ricevette i suggerimenti dei consiglieri militari.

Il senatore repubblicano Dan Sullivan ha tentato di far scivolare Milley chiedendogli se le parole di Biden non costituissero una “falsa dichiarazione” ma il generale non è caduto nella trappola. E si è difeso bene quando un altro senatore del Grand Old Party gli ha chiesto se non avrebbe dovuto dimettersi dopo che il presidente decise di ritirare tutte le truppe contro l’avviso dei generali: “Sarebbe stato un incredibile atto di sfida politica per un funzionario incaricato dimettersi solo perché il suo consiglio non è stato accolto, questo Paese non vuole generali che decidono quali ordini accettare o meno, non è il nostro lavoro”.

Milley ha rintuzzato anche le critiche di abuso di potere o tradimento dopo le rivelazioni del libro di Bob Woodward sul suo comportamento negli ultimi mesi tempestosi della presidenza Trump, dicendosi certo che il presidente non intendeva attaccare Pechino ma che era suo compito rassicurare la controparte ciñese per la “de-escalation” della situazione, con telefonate che fanno parte della sua attività regolare e di cui erano a conoscenza anche il segretario di stato Mike Pompeo e il capo del Pentagono Mark Esper.

Ma i generali non hanno risparmiato le loro critiche ad un ritiro “non certo perfetto”, che è stato un “successo logístico ma un fallimento strategico”, causando un “danno” alla credibilità americana nel mondo. Con l’amara ammissione, dopo 20 anni, di non aver capito “la vera entità di corruzione e incompetenza nella leadership dell’esercito afghano”.

(di Claudio Salvalaggio/ANSA).