Innalzamento mare irreversibile, allarme su Venezia

Acqua alta a Venezia.
Acqua alta a Venezia. ANSA/ANDREA MEROLA

ROMA. –    É “irreversibile e continuo” l’innalzamento del livello dei mari. Un impatto diretto, e “fonte di preoccupazione”, dei cambiamenti climatici che colpisce soprattutto le zone costiere, e che diventa di massima “attenzione” per Venezia dove è in atto un doppio effetto: da un lato lo sprofondamento del suolo e dall’altro l’aumento del mare in modo più marcato che altrove.

Sono le considerazioni, le prime dedicate al monitoraggio dei cambiamenti climatici in Italia, presentate dal Sistema nazionale protezione ambiente (Snpa), e che parlano anche di scioglimento dei ghiacciai (sempre di più ogni anno), di temperature bollenti per il nostro mare, e delle conseguenze e dei danni per l’economia del Paese.

Il mare che cresce – viene spiegato dal rapporto preparato dal gruppo di lavoro di esperti provenienti dalle Agenzie per la protezione dell’ambiente, dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), e da altri istituti e enti di ricerca – tocca Venezia. E non potrebbe essere diversamente; gli allarmi sulla città lagunare sono arrivati anche dall’Ipcc (il panel di scienziati che studiano il clima su mandato delle Nazioni Unite).

Ora però – si fa presente – quello che succede, con maggiore dettaglio: è in atto un combinato disposto tra l’aumento del livello del mare e l’abbassamento del terreno, con il tasso di crescita medio che è di 2,53 millimetri all’anno nel lungo periodo (1872-2019); un valore che però raddoppia, e passa a 5,34 millimetri all’anno, prendendo in esame soltanto l’ultimo periodo (1993-2019).

Il mare però, sotto i colpi dei cambiamenti climatici, non soltanto cresce ma si riscalda. E questo si ripercuote soprattutto su mar Ligure, Adriatico e Jonio settentrionale. Una situazione definita “inequivocabile”, tanto che all’aumento della temperatura corrisponde già “una significativa variazione della distribuzione delle specie, con un aumento della pesca nei mari italiani di quelle che prediligono temperature elevate” come acciuga, sardinella, mazzancolle e gambero rosa, e che “si stanno diffondendo sempre più a nord nei mari italiani.

Penalizzate le specie di grandi dimensioni”. La fotografia di quanto accade viene data dall’indicatore di ‘temperatura media della catture’, che è cresciuta di oltre un grado negli ultimi 30 anni.

Nelle Alpi il quadro sembra lo stesso: sono “evidenti” le “tendenze alla deglaciazione a causa delle elevate temperatura estive e della riduzione delle precipitazioni invernali; si registra una perdita costante di massa (caso pilota su Valle d’Aosta e Lombardia), con una media annua pari a oltre un metro di acqua equivalente dal 1995 al 2019”.

E non finisce qui, perché c’è anche “una chiara tendenza al degrado del permafrost”: su “due siti pilota regionali”, quello della Valle d’Aosta e del Piemonte, si evidenzia “un riscaldamento medio di più 0,15 gradi centigradi ogni 10 anni con un’elevata probabilità di ‘degradazione completa’ entro il 2040 nel sito piemontese”.

La mancanza di acqua, e quindi di “stress idrico per le colture (mais, erba medica e vite) e le specie vegetali”, in casi pilota di Emilia-Romagna e Friuli Venezia Giulia, può comportare “sul lungo periodo possibili conseguenze sul ciclo di crescita e riproduttivo, e una consistente perdita produttiva con evidenti ricadute economiche”.

E i danni all’economia sono un aspetto che per l’Italia delinea “fattori di criticità sia per le risorse naturali che per i settori socio-economici” che subiscono gli effetti dei mcambiamenti climatici.

Il rapporto prende in considerazione 20 indicatori e 30 casi pilota mettendo al centro dell’analisi (contenuta in un volume di 248 pagine) l’osservazione per esempio di aree legate a risorse idriche, patrimonio culturale, agricoltura e produzione alimentare, energia, pesca, salute, foreste, ecosistemi marini e terrestri, suolo e territorio, ambiente alpino e appennini e zone costiere.

(di Tommaso Tetro /ANSA).

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