La stretta di Pechino: “nascite dimezzate nello Xinjiang”

Uno studente uiguro legge il Corano
Uno studente uiguro legge il Corano ANSA/EPA EPA/WU HONG

PECHINO.  – Sempre meno bambini uiguri nello Xinjang. La stretta di Pechino sulle minoranze musulmane nella regione ha quasi dimezzato il tasso di natalità nello Xinjiang tra il 2017 e il 2019.

L’ultimo rapporto del think tank Australian Strategic Policy Institute (Aspi) ha aggiunto pesanti critiche alle politiche coercitive sulla fertilità praticate, secondo le accuse, nella vasta regione del nordovest dove la Cina ha dal 2014 a oggi, in base a una ricerca dell’Uyghur Human Rights Project, messo in carcere in modo pretestuoso almeno 630 imam e altre figure religiose musulmane per “propaganda estremista”, “chiamata a raccolta di folla per disturbare l’ordine sociale” e “incitamento al separatismo”.

Il fronte dello Xinjiang resta estremamente caldo coi dossier su incarcerazioni di massa, lavoro e sterilizzazione forzati negli ultimi anni: il Dipartimento di Stato Usa ha accusato mercoledì la Cina di trasformare la regione in una “prigione a cielo aperto”, nel rapporto 2020 annuale sulla libertà religiosa internazionale.

La Cina criminalizza “l’espressione religiosa e continua a commettere crimini contro l’umanità e genocidio contro gli uiguri e le altre minoranze religiose ed etniche”, ha detto il Segretario di Stato Antony Blinken nell’occasione.

L’allarme dell’Aspi, tuttavia, s’è spinto oltre perché i suoi autori, Nathan Ruser e James Leibold, hanno sostenuto che le cifre dimostrano cali di nascite senza precedenti, più estremi di qualsiasi altra regione o fase nei 71 anni di raccolta dati sulla fertilità da parte dell’Onu, anche nei genocidi in Ruanda e Cambogia.

La ricerca Aspi è stata compilata usando le statistiche pubbliche del governo cinese, creando una banca dati sulla natalità a livello di contea dal 2011 al 2019 ed esaminando nel dettaglio quelle con quote più alte di uiguri e altre minoranze musulmane.

Il tasso delle nascite è calato del 48,74% tra il 2017 e il 2019: nelle contee in cui la popolazione era almeno per il 90% non cinese di etnia Han, la percentuale è scesa in media del 56,5% tra il 2017 e il 2018.

A Pechino, intanto, sono scesi in campo i leader musulmani dello Xinjiang contro le accuse di soppressione religiosa, intervenendo a un ricevimento per diplomatici e media stranieri alla fine del Ramadan. Facendo eco alla linea ufficiale, il presidente dell’Associazione islamica dello Xinjiang ha affermato che la Cina ha sradicato il terreno fertile per l’estremismo migliorando i mezzi di sussistenza, insegnando alle persone la legge e istituendo centri di formazione professionale e istruzione.

Abdureqip Tomurniyaz, che dirige l’associazione e la Scuola per gli studi islamici, ha parlato di forze anti-cinesi negli Usa e in altri Paesi occidentali che “diffondono voci e bugie. Vogliono sabotare l’armonia e la stabilità, contenere l’ascesa della Cina e alienare i rapporti Cina-Paesi islamici”.

I leader religiosi di cinque moschee hanno parlato alla presentazione di 90 minuti, tre di persona e due in video. Tutti hanno descritto preghiere e banchetti per l’Eid al-Fitr e hanno respinto le critiche. I filmati hanno mostrato uomini che pregavano nelle moschee e persone che ballavano fuori, nelle piazze.

Tutti i gruppi etnici “sostengono le misure adottate per combattere il terrorismo e tutte le persone sono grate al Partito comunista cinese e al governo per il ripristino della stabilità e per la promozione della crescita economica”, ha scandito Mamat Juma, l’imam della storica moschea Id Kah nella città di Kashgar e il cui padre morì in un attentato nel 2014. Di matrice “fondamentalista”, secondo le conclusioni delle autorità locali.

(di Antonio Fatiguso/ANSA).

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