Caccia a Di Marzio, tra 10 giorni prescritto e libero

Una delle foto, rilasciate dal Tribunale, rese pubbliche a trent'anni dall'omicidio del vicebrigadiere di Polizia Antonino Custra, ucciso nei violentissimi scontri che scoppiarono il 14 maggio del 1977 a Milano durante una manifestazione di giovani dell'Autonomia.
Una delle foto, rilasciate dal Tribunale, rese pubbliche a trent'anni dall'omicidio del vicebrigadiere di Polizia Antonino Custra, ucciso nei violentissimi scontri che scoppiarono il 14 maggio del 1977 a Milano durante una manifestazione di giovani dell'Autonomia. ANSA

ROMA. – É l’unico ancora libero e se riuscirà a sfuggire all’antiterrorismo e a rimanere nascosto per altri dieci giorni lo sarà per il resto della vita: sui 5 anni e 9 mesi di reclusione che ancora deve scontare per banda armata, associazione sovversiva, sequestro di persona e rapina, il 10 maggio piomberà la prescrizione e a quel punto non sarà più perseguibile dalla giustizia italiana.

É una corsa contro il tempo quella degli investigatori francesi e italiani per localizzare Maurizio Di Marzio, l’unico degli ex terrorista rifugiati in Francia ancora latitante dopo che Luigi Bergamin e Raffaele Ventura si sono costituiti.

I contatti tra l’antiterrorismo dei due Paesi sono costanti, con un continuo scambio di informazioni e il monitoraggio di tutte le persone in Francia e in Italia che in qualche modo possano aver avuto o avere ancora oggi legami con lui. Romano, appartenente all’ala militarista delle bierre, per Di Marzio sarebbe il secondo arresto in Francia: lo presero già una volta nell’agosto del 1994, sempre su richiesta dell’Italia, e l’anno dopo la Corte d’Appello espresse parere favorevole all’estradizione.

Ma il decreto governativo non fu mai firmato e l’ex terrorista tornò libero. Negli anni successivi, ricordano gli investigatori che non hanno mai mollato la caccia agli ex terroristi, si è sposato, ha aperto il ristorante ‘Baraonda’ e  ha partecipato a diverse iniziative in favore dei rifugiati in Francia.

Negli archivi di polizia, il suo nome è legato all’attentato al dirigente dell’ufficio provinciale del collocamento di Roma Enzo Retrosi, nel 1981, e soprattutto al tentato sequestro del vicecapo della Digos della capitale Nicola Simone il giorno della Befana del 1982.

“Un brigatista travestito da postino, con divisa e blocchetto delle ricevute in mano, bussò verso le 15 – scriveva il quotidiano L’Unità una settimana dopo -. Simone guardò prima attraverso lo spioncino poi aprì, ma in pugno aveva la sua 38 special perché non si fidava. Secondo la prima ricostruzione il terrorista avrebbe sparato contro il funzionario di polizia, il quale avrebbe avuto la forza di reagire esplodendo a sua volta due colpi.

Stando alla nuova versione, invece, altri componenti del commando Br erano appostati sul pianerottolo e avrebbero cercato di aggredire Simone per immobilizzarlo e rapinarlo. Allora il vicecapo della Digos avrebbe aperto il fuoco per primo, ferendo con due colpi uno dei terroristi e poi sarebbe caduto a terra ferito a sua volta da tre proiettili al volto”. Tra i rifugiati a Parigi quell’agguato è contestato oltre che a Di Marzio anche a Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli e Marina Petrella.

A Nicola Simone – che dopo la lotta alla Br è stato il primo direttore dell’Interpol Italia, del Servizio centrale operativo e a capo della missione interforze in Albania alla fine degli anni Novanta – lo Stato italiano ha conferito la medaglia d’oro al valore civile: “Vittima di un tentativo di sequestro da parte di alcuni terroristi armati penetrati con inganno nella sua abitazione – si legge nella motivazione – con estremo coraggio e decisione reagiva prontamente con l’arma in dotazione.

Sebbene gravemente ferito, colpiva a sua volta un criminale, e messi in fuga gli altri aggressori ne consentiva poi l’individuazione e l’arresto”. Il vicequestore, diventato poi prefetto, è morto poco più di un mese fa ad Avezzano.

Dieci giorni dopo l’attentato, gli investigatori individuarono a Marino, vicino Roma, una villetta che doveva essere la prigione del popolo, come via Montalcini fu per Moro: all’interno c’era una tenda canadese, una branda, catene, lucchetti, armi, munizioni, targhe e documenti.

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