Pechino sanziona i parlamentari Gb, l’ira di Johnson

Il primo ministro britannico Boris Johnson.
Il primo ministro britannico Boris Johnson. (ANSA/EPA)

LONDRA. – La Cina non incassa la nuova ondata di sanzioni occidentali senza reagire e scatena la sua rappresaglia diplomatica anche sulla Gran Bretagna di Boris Johnson: in prima fila in questi mesi nelle accuse a Pechino sulle repressioni contro la minoranza musulmana degli Uiguri dello Xinjiang, ma anche sulla stretta imposta dal dragone a Hong Kong, l’ex colonia restituita nel 1997 fra inchini, salamelecchi e promesse di amicizia ormai sbiadite.

La risposta del gigante asiatico si condensa nel bando di ben sette parlamentari del Regno, alcuni dei quali vicinissimi al primo ministro Tory, e a due personalità impegnate per i diritti umani: ritorsioni cui Londra fa seguire a stretto giro la convocazione dell’ambasciatore cinese al Foreign Office.

Non ci faremo intimidire né mettere a tacere, è il messaggio salito da Downing Street e dintorni malgrado le dimensioni dell’interlocutore e gli interessi ciclopici in gioco (tanto più nella realtà del dopo Brexit): interessi lievitati per anni ai tempi in cui il governo laburista di Tony Blair o quello mconservatore dell’attuale consulente sinofilo David Cameron non esitavano a stendere il tappeto rosso ai piedi dei leader della nomenklatura d’oltre Muraglia e alle valanghe di capitali in arrivo da est.

BoJo ha affidato il suo sdegno a un tweet: sanzionando sette parlamentari, un avvocato e un’accademica britannici, ha scritto, Pechino ha voluto colpire persone che “svolgono un ruolo vitale per illuminare le grossolane violazioni dei diritti umani perpetrate contro gli Uiguri musulmani. Ma la libertà di parlare per opporsi all’abuso è fondamentale e io sono fermamente schierato al loro fianco”.

Parole alle quali ha fatto seguire i fatti, ordinando al dicastero degli Esteri di convocare senza indugi l’ambasciatore cinese. Obiettivo, come ha poi spiegato il ministro Dominic Raab, “spiegare in termini molto chiari che non ci lasceremo zittire sugli abusi contro i diritti umani”.

Abusi che la Cina commette “su scala industriale nello Xinjiang”, ha rincarato Raab, sfidando la potenza asiatica a provare la credibilità delle sue smentite consentendo l’accesso alle ispezioni dell’alto commissariato Onu sui Diritti Umani guidato dalla ex presidente cilena Michelle Bachelet.

Il capo del Foreign Office fa leva del resto sulla sintonia e sul coordinamento stabiliti su questa trincea con la nuova amministrazione Usa di Joe Biden, oltre che con l’Ue e con gli alleati occidentali in genere.

Bollando la mossa del colosso d’oriente come un “segnale di debolezza” in realtà, e fidando che misure anti-cinesi siano in arrivo in totale da almeno “30 Paesi”.

Non meno battagliera la replica dei nove sanzionati – i mdeputati conservatori Iain Duncan Smith, Nusrat Ghani, Tim Loughton, Tom Tugendhat e Neil O’Brien i pari della Camera dei Lord Helena Kennedy (Labour) e David Alton (LibDem), nonché l’avvocato dei diritti umani Geoffrey Nice, presidente dell’Uighur Tribunal, e la sinologa Jo Smith Finley, studiosa degli Uiguri – tutti esclusi dal poter viaggiare d’ora in avanti in Cina, a Hong Kong o a Macao, da scambi d’alcun tipo con istituzioni o realtà economiche cinesi e dall’accesso a qualsiasi asset personale a portata di mano di Pechino. Ma tutti decisi a non piegarsi.

“É un nostro dovere chiamare il governo cinese a rispondere degli abusi sui diritti umani a Hong Kong o sul genocidio del popolo degli Uiguri”, ha tuonato fra gli altri Duncan Smith, già leader del Partito conservatore e veterano della destra brexiteer.

“Non accetteremo questo attacco alla democrazia britannica e il tentativo di sovvertirla”, ha alzato ulteriormente i toni Tugendhat, presidente della commissione Esteri della Camera dei Comuni e sostenitore britannico delle dottrine neocon americane. “Non mi pento d’aver parlato – ha chiosato infine la professoressa  Smith Finley -. E non mi farò ridurre al silenzio”

(di Alessandro Logroscino/ANSA).

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