Birmania in piazza, i generali minacciano la repressione

Manifestanti fanno il segno delle tre dita, simbolo della protesta contra i militari in Birmania.
Manifestanti fanno il segno delle tre dita, simbolo della protesta contra i militari in Birmania.

BANGKOK.  – Minacce di una repressione armata, idranti sparati sulla folla nella capitale, la legge marziale nella seconda città più popolosa del Paese: in Birmania il regime golpista fa capire di essere pronto a usare la forza, ma nel Paese le manifestazioni di protesta contro il colpo di stato di una settimana fa diventano ogni giorno più grandi.

Da una parte un esercito abituato a comandare, dall’altra una risposta popolare che i generali probabilmente non avevano messo in conto: due forze contrapposte che fanno aumentare il rischio di violenze con il passare delle ore.

In centinaia di migliaia sono scesi nelle strade di Yangon, l’ex capitale, in scia ad altre imponenti manifestazioni degli ultimi due giorni. Ma altre proteste si sono viste a Mandalay, nonostante la proclamazione della legge marziale con coprifuoco notturno, e persino nella vasta capitale Naypyidaw, costruita negli ultimi anni della dittatura con il chiaro intento di rendere difficili assembramenti anti-governativi.

Qui – dove vivono molti dipendenti statali – in mattinata la polizia ha usato gli idranti nel tentativo di disperdere la folla, mentre a Yangon e in altre città del Paese, le forze dell’ordine si sono limitate a impedire l’accesso ai palazzi del potere.

In serata il capo delle forze armate, generale Min Aung Hlaing, è apparso in televisione per giustificare il golpe, di nuovo con la motivazione dei “brogli elettorali” nelle elezioni dello scorso novembre in cui ha trionfato la “Lega nazionale per la democrazia” di Aung San Suu Kyi, e annunciando nuove inchieste sulle presunte irregolarità.

Ma sono spiegazioni che non convinceranno una folla fatta in gran parte di giovani, che scendono in piazza in un’atmosfera di protesta gioiosa e con scritte, chiaramente ispirate a “meme” imparati in fretta nei pochi anni su Internet, che deridono il regime. Con l’accesso a Internet ormai ristabilito, per quanto le connessioni siano molto rallentate (forse anche per i picchi di utenti collegati per informarsi e condividere immagini delle proteste), nessuno sembra avere ormai paura di esprimere il proprio dissenso.

Diversi negozi hanno inoltre iniziato a togliere dagli scaffali prodotti dei conglomerati dell’esercito, come la popolare Myanmar Beer.

Il rischio è però che una popolazione giovane, senza memoria della repressione della “rivoluzione di zafferano” del 2007 e ancor meno del massacro che schiacciò le proteste pro-democrazia nel 1988, sottovaluti la determinazione di un esercito che si sente il garante indispensabile della stabilità nazionale e ha enormi interessi in ballo.

“Provvedimenti devono essere presi contro le infrazioni che mettono in pericolo la stabilità dello Stato e la sicurezza pubblica”, ha ammonito la rete statale oggi.

Da parte sua, la giunta è probabilmente conscia che la Birmania del 2021 è distante anni luce da quella del 2007: un’eventuale repressione armata finirebbe su tutti i social media, con conseguenze disastrose sull’immagine dei militari in patria e nelle relazioni internazionali. Oggi è arrivato anche l’appello di papa Francesco, che ha espresso la sua solidarietà al popolo birmano e esortato la giunta a rimettere in libertà gli almeno 160 politici e altri dissidenti arrestati.

(di Alessandro Ursic/ANSA)