Nuovo processo dopo 50 anni nel braccio della morte

L'ex pugile giapponese Iwao Hakamada in un'immagine d'archivio.

ROMA.  – Lo ripete da più di cinquant’anni di essere innocente. Che quella confessione gli era stata estorta con le minacce, frutto del terrore e della confusione. Era il 1966 e l’ex pugile giapponese Iwao Hakamada, oggi 84enne, veniva arrestato per l’omicidio del suo datore di lavoro, della moglie e dei due figli adolescenti della coppia, prima di dare fuoco alla loro abitazione.

Venne condannato nel 1968 e il verdetto – con la condanna a morte – venne confermato dalla Corte Suprema nel 1980. Ma da subito Hakamada aveva tentato di ritrattare quella confessione, di spiegare che era stato incastrato ed era vittima di un’ingiustizia, supplicando che non diventasse un “errore giudiziario”, implorando di non venire messo a morte per un crimine che non aveva commesso.

Così negli anni, e per decenni, hanno lottato i suoi legali, da appello in appello, da tribunale in tribunale, fino ad oggi quanto la Corte Suprema giapponese ha dato parere favorevole alla revisione del processo, aprendo così un nuovo spiraglio alla speranza di fermare il boia e persino alla possibilità che Hakamada, il cui triste primato è di essere l’uomo che al mondo ha atteso più a lungo il suo destino nel braccio della morte, venga scarcerato.

La linea della difesa è che l’uomo sia stato costretto “ad ammettere un crimine che non aveva commesso durante gli interrogatori a tratti brutali della polizia”. Dopo la sentenza di terzo grado del 1980 che lo condannava alla pena capitale, i suoi avvocati riuscirono a riaprire il processo dimostrando irregolarità e le forti pressioni psicologiche esercitate per ottenere una dichiarazione di colpevolezza.

Nel 2014 un’altra Corte stabilì incongruenze negli esami del Dna, accordandogli la libertà, ma l’anno successivo un tribunale contestò nuevamente il procedimento legale sui test di laboratorio, rimettendosi al giudizio definitivo della Corte Suprema.

Durante l’ultimo viaggio del Pontefice a Tokyo, nel noviembre dell’anno scorso, il “cattolico inocente” – come si autodefinisce Hakamada – battezzato col rito religioso durante la sua permanenza in carcere è riuscito anche a partecipare alla messa del Papa.

Un’immagine altamente simbolica e un fatto che ha dato forte impulso al movimento contro la pena capitale in Giappone, dove il dibattito resta acceso: si tratta infatti dell’unica democrazia avanzata, insieme agli Stati Uniti, ad applicare esecuzioni e con livelli di consenso che ad oggi si assestano attorno all’80%.

(di Anna Lisa Rapanà/ANSA)

Lascia un commento