Scaduto l’ultimatum in Etiopia, ‘fase finale’ nel Tigrè

Il primo Ministrio etiope, Abiy Ahmed in una foto d'archivio
Il primo Ministrio etiope, Abiy Ahmed in una foto d'archivio. EPA/STR

IL CAIRO. – Scaduto l’ultimatum di 72 ore lanciato domenica, il premier etiope Abiy Ahmed ha annunciato la “fase finale” dell’attacco al capoluogo della regione ribelle dei Tigré: un nuovo sviluppo del conflitto in corso dal 4 novembre e in cui istituzioni internazionali e ong temono un gran numero di altre vittime civili. C’è inoltre il rischio di una destabilizzazione dell’intero corno d’Africa, inclusa la stessa Etiopia, il secondo Stato più popoloso d’Africa dopo la Nigeria.

“L’ultima porta pacifica che era rimasta da attraversare al Tplf”, il Fronte di liberazione del popolo dei Tigrè, “ora è stata fermamente chiusa”, ha twittato il premier. L’Onu ha messo in guardia da potenziali pulizie etniche ma Abiy – premiato col Nobel l’anno scorso per la storica pace con l’arcinemica confinante Eritrea – si è impegnato a proteggere i civili (Macallè ha circa 500 mila abitanti), aree residenziali, siti storici, luoghi di culto e strutture pubbliche.

In serata ha anche annunciato l’intenzione di aprire un corridoio per l’assistenza umanitaria. Di fronte a questi impegni, le uniche esternazioni fornite dal Tplf parlano però di difesa a oltranza e di arruolamento di massa anche di civili. Nelle tre settimane di conflitto vi sarebbero stati già centinaia di morti e circa 40 mila sfollati sono fuggiti in Sudan, dove peraltro Khartum non ha risorse per gestirli.

Il dato sui profughi è dell’Onu, ma con le telecomunicazioni tagliate e gli accessi alla regione settentrionale al confine con l’Eritrea bloccati si nota una disinformazione tracimata anche su media internazionali. La situazione si è creata con l’avvento del 44enne Abiy nel 2018: due anni in cui la Regione con capitale Macallè si è ribellata attraverso diverse provocazioni come elezioni tenute a settembre nonostante un rinvio imposto a livello centrale a causa del Covid.

I tigrini non accettano il ridimensionamento imposto dal premier considerando che costituiscono solo un 6% degli oltre 110 milioni di etiopi e sebbene siano sempre stati al centro del potere e dell’economia dopo la caduta del regime militare nel 1991.

E’ chiaro però che in Etiopia ci sono già faglie di conflitti etnici che vanno oltre la questione del Tigrè, in quanto il Paese dell’Africa orientale è frammentato in oltre 90 etnie (una decina le principali, tra cui Oromo, Amhara, Somali, appunto i Tigrini e gli Afar).

Nel tentativo di superare l’attuale federalismo etnico attraverso un discorso unitarista basato sul concetto di “medemer” (parola che vuol dire “sinergia”), il premier ha chiaramente bisogno di rinsaldare consenso con le componenti Amhara e Oromo che l’hanno spesso accusato di essere troppo morbido con le altre etnie o ‘traditore’ della propria (Abiy è oromo per parte di padre).

Intanto ad Addis Abeba sono giunti gli inviati della missione voluta dall’Unione africana per provare a mediare tra il governo federale e lo Stato regionale del Tigrè.

(di Rodolfo Calò/ANSA)