Discese ardite e risalite, i 60 anni di Maradona

Il fuoriclasse argentino Diego Armando Maradona, ed ex-allenatore del Club de Gimnasia y Esgrima di La Plata, in Argentina, saluta con un bacio i tifosi al suo arrivo allo stadio di Buenos Aires. Immagine d'archivio
Il fuoriclasse argentino Diego Armando Maradona, ed ex-allenatore del Club de Gimnasia y Esgrima di La Plata, in Argentina, saluta con un bacio i tifosi al suo arrivo allo stadio di Buenos Aires. Immagine d'archivio EPA/JUAN IGNACIO RONCORONI

ROMA.  – Qualche giorno fa per gli 80 anni di Pelè, l’unico che parli il suo stesso linguaggio calcistico, Diego Armando Maradona ha inviato un messaggio di auguri. Venerdì, giorno in cui il “Pibe de oro” varcherà la soglia dei 60, c’è da giurare che “O’Rey” ricambierà. Cortesie fra campioni che il tempo non riuscirà mai a sbiadire. Diego, assieme al brasiliano, è tutt’ora un’icona del calcio, ma rappresenta molto di più di un asso del pallone.

L’argentino, da sempre mito e simbolo, è stato anche leader popolare, icona di creatività e ribellione, con la sua faccia da indio e il suo spirito da guerriero. Un concentrato di vita e di sport, sospeso fra debolezze umane  e colpi di classe. Da capopolo ha spaccato e unito intere generazioni, come quando – alla vigilia della semifinale dei Mondiali del 1990, fra Italia e Argentina, che si sarebbe giocata nella “sua” Napoli – puntò il dito contro un Paese intero, che “si ricordava di Napoli solo quando c’era da sostenere la Nazionale azzurra”. Dunque, nel momento del bisogno. Diego, con una sola frase, divise il San Paolo, che poi era il suo regno.

Talento precoce dell’Argentinos Juniors, ha vinto meno di quanto la sua classe gli avrebbe consentito. E questo perché non ha mai scelto di far parte di un club dell’alta aristocrazia del calcio. Approdò in un Barcellona che si contrapponeva al Real Madrid e, dopo avere subito un gravissimo infortunio nella Liga (fallo durissimo di Goicoechea), venne acquistato dal Napoli.

Sembrava un veterano, ma aveva solo 24 anni. Maradona arrivò ai piedi del Vesuvio dopo una trattativa di quasi tre mesi, condotta con la solita abilità diplomatica da Italo Allodi: la società partenopea organizzò un “saluto” al pubblico il 5 luglio 1984 e fu amore a prima vista. Quel giorno, allo stadio San Paolo, a Fuorigrotta, 60 mila tifosi pagarono 3 mila lire a testa per veder palleggiare il “Pibe”.

Maradona regalerà al Napoli una Supercoppa italiana, due scudetti, una Coppa Uefa, ricambiando con prodezze stilistiche l’amore di una città, che tutt’ora si tramanda da padre in figlio in una sorta di rituale e virtuale contemporaneità. Da Forcella al Rione Sanità, l’immagine di Diego è ancora stampata sui muri o nei tabernacoli ex voto del popolo. Una divinità pagana, da affiancare al patrono San Gennaro: quel campione che dice sempre quello che pensa e pensa quello che dice, senza giri di parole, è stato un Masaniello contemporaneo.

Diego trova posto al fianco di idoli, suoi e non solo, della potenza mediatica di Ernesto Che Guevara o Fidel Castro, di cui sarà amico quasi inseparabile per un lungo periodo. Sposerà anche la causa palestinese, prima con Yasser Arafat, quindi con Abu Mazen. Irriverente, burrascoso, quando arrivò a Napoli godeva della stessa popolarità di Papa Giovanni Paolo II o Michael Jackson.

Il capolavoro sportivo e di astuzia lo realizza in Messico, proprio come Pelè nel 1970, fra i colori dello stadio Azteca, lo stesso che 16 anni prima aveva ospitato Italia-Germania 4-3. Diego, ai Mondiali 1986, contro l’Inghilterra – non un avversario qualsiasi, per via del ricordo ancora fresco della guerra delle Falkland – di fronte alle telecamere di tutto il mondo, beffa Peter Shilton, insaccando il pallone con un tocco di mano.

Per l’arbitro tunisino Ali Bin Nasser, il “Pibe” aveva segnato di testa: una decisione che fa impazzire di rabbia gli inglesi. Poi, a fine partita, l’argentino ammette che quel gol lo aveva segnato “La mano de Dios”, non lui. A legittimare il capolavoro messicano, il gol più bello della storia, almeno per la Fifa, con Maradona che, nello stesso match, controlla con un preziosismo a centrocampo, parte con il pallone incollato sul magico sinistro, supera di slancio l’intera difesa inglese – compreso il portiere – e insacca mentre cade.

Diego trascinerà l’Argentina, che peraltro ha una rosa di giocatori modesti, al titolo mondiale. Non si ripeterà a Italia ’90, perdendo in finale con la Germania per un rigore assai discutibile e che fa sciogliere in un pianto rabbioso l’eroe improvvisamente divenuto umano.

La sua parabola calcistica si conclude ingloriosamente, con una positività al doping nei Mondiali di Usa ’94. Diego accusò la Fifa e puntò il dito contro il nemico di sempre, l’allora presidente Sepp Blatter, reo a suo dire di averlo indotto a rimettersi in carreggiata e poi di averlo tradito. Il suo declino era cominciato in realtà nel 1991, appena un anno dopo il secondo scudetto di Napoli, quando viene arrestato per detenzione di sostanze stupefacenti.

La sua carriera di allenatore non è all’altezza di quella da calciatore. La sua esistenza rimane in bilico – sospeso fra la vita e la morte- la sera del 4 gennaio 2000, per una “crisi di cocaina”, come ammise Jorge Romero, il medico che lo salvò.

Ha collezionato amori, figli illegittimi e poi riconosciuti, ha riempito giornali, ha ballato con Raffaella Carrà, è stato showman, fatto scrivere libri densi di episodi che, malgrado tutto, non oscureranno mai la luce della sua stella.

(di Adolfo Fantaccini/ANSA)

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