Trasparenze Meiji

Trasparenze Meiji

La prima macchina fotografica digitale fu costruita nel 1975 da un ingegnere della Eastman Kodak, Steven Sasson. Pesava 3,6 kg, registrava le immagini catturate in bianco e nero su un nastro e il primo “scatto” impiegò 23 secondi per essere catturato. Era un esercizio tecnico che non entrò mai in produzione, ma condannò, se non immediatamente, la fotografia “chimica” – e la stessa Kodak con le sue pellicole da “sviluppare” – all’obsolescenza.

Sono stati i giapponesi della Kyocera invece a riuscire per primi – nel 1999 – ad infilare un sistema fotografico completo in un telefono cellulare con il Visual Phone VP-210, effettivamente abolendo la “camera oscura” con la sua luce rossa e i suoi misteriosi e puzzolenti reagenti.

Non è stata la prima innovazione giapponese a cambiare la fotografia. L’immagine che appare qui sopra risale al tardo ‘800. Si tratta di un’immagine “positiva” su una lastra di vetro colorata a mano. Il “negativo”, catturato anch’esso sul vetro con uno degli ingombranti scatoloni usati dai fotografi ambulanti dell’epoca, era in bianco e nero e doveva essere “invertito”, trasferendolo sulla lastra di destinazione da passare ai coloristi.

Il prodotto finale, genericamente una “trasparenza di Yokohama”, fu offerto ai viaggiatori in visita al Giappone durante l’epoca Meiji (1868–1912), un periodo in cui non esistevano cartoline postali o piccole macchine fotografiche da portare al collo.  Le immagini, oggi molto ricercate dai collezionisti, offrivano certi vantaggi poi persi con il progresso tecnologico: come l’altissima risoluzione possibile con i processi chimici, nonché il grande formato della lastra originale, caratteristiche trasferite con fedeltà al positivo con la sua peculiare luminosità.

Le trasparenze giapponesi distrussero la larghissima parte della produzione delle tradizionali stampe ukiyo-e incise sul legno e poi portate su carta, ma i coloristi del cartaceo si adattarono senza particolare difficoltà al nuovo supporto.

James Hansen

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