Addio Philippe Daverio, l’arte di raccontare l’arte

Philippe Daverio a Novara per gli 'Incontri Popolari' nella basilica di S. Gaudenzio
Philippe Daverio a Novara per gli 'Incontri Popolari' nella basilica di S. Gaudenzio, 23 maggio 2014. ANSA / FABIO ANTONELLI

ROMA. – “Contro la depressione da lockdown è fondamentale usare il cervello e la fantasia”. Smagrito e forse un po’ rauco, ma sempre ironicamente dandy, occhiali tondi e papillon d’ordinanza, Philippe Daverio- morto ieri notte a 70 anni all’Istituto Tumori di Milano- sosteneva così solo qualche mese fa gli italiani segregati dalla pandemia Covid.

Erano i giorni degli inviti a rimanere in casa e lui, spirito sociale per eccellenza, funambolico intrattenitore con il talento di incantare un po’ tutti dai salotti della Milano bene alla tv, parlava dalla sua abitazione milanese, le mani sulla tastiera del piano, lo sguardo dritto alla telecamera e quel suo modo particolarissimo di prendere sotto braccio ogni spettatore, come succedeva con Passepartout, il programma di Rai3 che quasi vent’anni fa lo ha fatto conoscere al grande pubblico.

“Non possiamo vedere nessuno fisicamente, ma abbiamo diritto ad un mondo intero che possiamo vedere virtualmente”, incitava magnificando le meraviglie del digitale capace di rendere la pandemia “ben diversa dalla peste del Manzoni”.

Nato a Mulhouse, in Alsazia nel 1949, figlio di un costruttore italiano e di un’alsaziana, aveva ricevuto un’educazione di stampo ottocentesco. A Milano, dove la famiglia si trasferì presto, si era iscritto al Politecnico, studi di economia che non completò mai. La sua vocazione, diceva, era quella di storico dell’arte, mestiere che ha finito per professare in un ruolo del tutto particolare, cucito sulla sua vulcanica personalità.

Fuori dalle accademie, che a lungo lo hanno guardato storto, eppure inserito nelle istituzioni, se si pensa che ha insegnato allo Iulm e ha tenuto un corso di disegno industriale alla Università di Palermo. Poliglotta, eclettico, instancabilmente curioso e coltissimo, Daverio aveva la capacità di mescolare argomenti e linguaggi e il dono di farsi seguire da tutti, dal letterato come dallo spettatore più pop.

L’arte, diceva, “deve servire un po’ a questo deve aiutare a capire il proprio tempo”. Gallerista, produttore, editore, animatore di mille iniziative, consulente di tanti importanti restauri milanesi dal Duomo a Palazzo Reale, impegnato nel Cda della Scala, a lungo giurato del Campiello a Venezia, è stato tentato dalla politica, assessore alla cultura a Milano nella prima giunta leghista, quella guidata da Formentini.

“Un fallimento”, ammise poi, negando sempre la sua vicinanza alle idee della Lega (“E’ stata la Lega a sposare le idee daveriane, non il contrario”) e soprattutto lontano, sottolineava, dal partito di Salvini, al quale contestava l’anti europeismo e non solo: “Di Berlusconi sappiamo che difende i suoi interessi – spiegò intervistato da Daria Bignardi alle Invasioni barbariche – Salvini non sappiamo cosa difende, forse una paura”.

Tant’è, la politica lo aveva deluso e lasciato, diceva, “in condizioni vicine alla povertà”. Era il 1997, chiusa una porta si aprì comunque un portone, con quasi un ventennio di televisione e tante pubblicazioni alle quali ha affidato il racconto dell’arte e delle bellezze del paese, borghi e monumenti ma anche un singolo quadro, che lui magnificava e invitava a scoprire, ponendosi sempre come una guida d’eccezione, un compagno di viaggio affabile e straordinariamente erudito, capace di passare con estrema naturalezza da Giotto all’architettura fascista, dal rapporto con il sacro delle avanguardie intellettuali russe del primo Novecento alla nascita del Barocco.

La politica come impegno civile torna in campo negli ultimi anni, con gli appelli per la salvaguardia di Venezia e gli interventi sul paesaggio, ma anche con le idee per un museo più vicino alle esigenze della contemporaneità. Il suo ideale – sapientemente raccontato in tanti volumi – avrebbe non a caso messo in discussione tutte le categorie del conosciuto, confondendole e rimescolandole, per raccontare una nuova storia o semplicemente per rileggere quella stessa storia con occhi diversi.

Un museo, diceva, “dove a spiegare la pittura politica ci siano, raccolte in un’unica grande sala, la colossale Zattera della Medusa di Theodore Gericault e la Liberta’ guida il popolo di Delacroix, Guernica di Picasso e il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, la Statua della Libertà di New York e la Fucilazione di Goya”.

La cultura, le istituzioni e anche la politica, gli rendono omaggio. Dal ministro Franceschini che ne ricorda anche la “straordinaria umanità” al direttore degli Uffizi Schmidt per il quale è stato “uno dei più efficaci e felici ambasciatori dell’arte”, dal sindaco di Milano Sala che ne ricorda la “libertà di pensiero” a Salvini (“Ha raccontato l’Italia agli italiani”).

Il museo di Brera, che lo annoverava nel suo Comitato scientifico, ne ospiterà domani la camera ardente. Sulle prime pagine di molti quotidiani, intanto, campeggia la pubblicità della sua ultima fatica editoriale. Con un titolo che sembra riassumere l’impegno di una vita: “Racconto dell’arte occidentale, dai greci alla pop art”.

(di Silvia Lambertucci/ANSA)

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