Libertà, autorità e democrazia sull’Atlantico sud

Una signora esce dall'aeroporto di Buenos Aires.
Una signora esce dall'aeroporto di Buenos Aires. (ANSA/EPA)

Il rallentato declino del coronavirus in corrispondenza all’accresciuta evidenza della crisi economica, hanno riacceso i toni della disputa politica in Argentina e un po’ ovunque nelle democrazie occidentali. Malgrado i letali colpi di coda della pandemia, a Buenos Aires l’opposizione macrista è scesa in piazza con clackson e casseruole come non avveniva da tempo. In protesta “contro il comunismo” del governo peronista, intenzionato a nazionalizzare un’importante impresa agro-industriale finita in una bancarotta che non cessa di generare multipli sospetti.

Sono anni, del resto, che non solo qui e anzi ben oltre le pampas e l’Atlantico sono in discussione contenuti, prerogative, forme e limiti della gestione del pubblico nelle strutture giuridico-amministrative dello stato-nazione. La complessità sociale non è infatti mai risolta una volta per tutte nella democrazia che la governa. Tant’è che ne discuteva già Max Weber.

Ai fedelissimi del peraltro assente ex presidente Macri e al presentissimo e attivo protagonismo degli interessi agrari, l’occasione per dare un colpo d’acceleratore è venuta da una significativa ricorrenza nazionale, il “giorno della bandiera” (20 giugno del 1812).

E’ l’anniversario della morte del suo creatore, Manuel Belgrano, un argentino di origini liguri, che con il cugino, Juan José Castelli, e Mariano Moreno, di padre basco, sono tra i primi e principali eroi dell’indipendenza nazionale dall’impero spagnolo.

Idealisti, colti e giovani, s’impegnano in politica negli anni della rivoluzione francese e al pari della gran parte dell’intelligentsja internazionale dell’epoca ne restano affascinati, riportando sul rio de la Plata i suoi valori fondamentali: liberté, egalitè, fraternité. La sinistra, anche peronista, li considera -Moreno per primo- parte della propria genealogia; la destra li rivendica invece per il loro nazionalismo libero-scambista.

Entrambe le parti non mancano di argomenti. I patrioti dell’Indipendenza argentina e latino-americana -chi più chi meno- avevano scarsa o nessuna esperienza politica. Hanno fatto il loro apprendistato tra congiure, battaglie in campo aperto, sanguinosi tradimenti. E anche soltanto autentici contrasti di opinione. Si sono trovati a dover agire in un crocevia di circostanze spesso imprevedibili, facendosi spazio negli interstizi dei conflitti tra i grandi imperi.

Nessuno aveva maturato una visione politica compiuta. Tutti hanno vissuto svolte, ripensamenti. La stessa rivoluzione francese passava dai lumi alle ghigliottine. E sebbene l’era digitale non fosse allora neppure immaginabile, le notizie prima o poi arrivavano. Ciò detto, Moreno, Castelli e Belgrano non hanno mai cambiato bandiera. Non più del nostro eroico Giuseppe Garibaldi, unitario in Italia e secessionista in Sudamerica. Sempre in nome della libertà.

La memoria più diffusa dei manifestanti macristi non era tuttavia di così lontana data. Il loro pensiero andava al 2008, quando tra marzo e luglio Cristina Fernandez Kirchner (da pochi mesi alla Casa Rosada, così come adesso Alberto Fernandez) non riuscì a impedire che latifondisti e grandi multinazionali del transgenico, cooperative e coltivatori diretti, l’intero fronte dei produttori agricoli scatenassero una serrata nell’intera Argentina, assecondati dai contemporanei blocchi stradali degli autotrasportatori. Chiedevano l’abolizione o un drastico taglio delle ritenute d’acconto sui prelievi fiscali all’export agricolo (oleaginose, grano, granturco).

Una prova di forza con pochi precedenti. Cristina tentò di venirne fuori rivolgendosi al Congresso con un disegno di legge –la Resolución 125-, che rimodellava l’imposta e prevedeva compensazioni per i piccoli produttori. Ma troppo tardi. Gli equilibri politici si erano rotti. Per un solo voto, quello decisivo e contrario del vicepresidente della Repubblica, il moderato Julio Cobos (tacciato di tradimento), il provvedimento fu respinto.

Cristina completò il mandato e ne ottenne il rinnovo alle successive elezioni del 2011. Ma anche per le difficoltà generate dalla crisi economica scoppiata negli Stati Uniti, l’egemonia del kirchnerismo ne risultò incrinata. Molti analisti politici e più di uno storico fanno risalire a quello scontro tra le due anime del paese le origini della sconfitta elettorale dei peronisti nel 2015 e il riaprirsi della grieta, la frattura socio-economica, ma anche di sentimenti profondi, che divide gli argentini e la cui natura ideologica è stata evidente anche in quest’ultima manifestazione.

C’è che l’agricoltura, moderna, efficiente e florida, è indispensabile al paese, a cui fornisce la valuta necessaria a finanziarne l’economia. Ritiene quindi di doversi imporre come modello e asse portante del sistema produttivo. Ma per sua natura, accentuata peraltro dalla continua meccanizzazione e dalla crescente concentrazione proprietaria, non è in grado di sostenere il mercato del lavoro. Al contrario, perde addetti di anno in anno. Nè genera sufficiente valore aggiunto. Non è e non può essere il motore dello sviluppo.

Senza questi precedenti è difficile comprendere i toni da crociata assunti dall’opposizione macrista, se non per il timore a qualsiasi riforma. La Vicentin, un’impresa strategica per l’economia nazionale, fondata nel 1929 da tre fratelli arrivati dalla provincia veneta, d’improvviso fallisce lasciando un buco da un miliardo e mezzo di dollari.

Il suo management non sa spiegare dove sono finiti i milioni concessi dai creditori, tra cui una banca pubblica. Centinaia di fornitori non pagati e 6mila e 500 dipendenti non trovano più interlocutori. Si rivolgono al governo, che nell’urgenza parla di esproprio, commissaria la holding, progetta di farne un polo pubblico nell’agro-industria. Il management tratta con il governo ma intanto si rivolge alla magistratura, che provvisoriamente lo reinsedia.

Mentre il governo di Alberto Fernandez è impegnato a evitare la formalizzazione del default ereditato da Mauricio Macri. Nel mezzo di una pandemia che solo la quarantena imposta tempestivamente ha risparmiato all’Argentina le stragi compiute in tutto il continente. Non sembrano la situazione e il caso più indicati per difendere la libertà d’impresa.

Livio Zanotti  

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