Suicida attivista Lgbt egiziana, subì torture in carcere

Una foto della attivista egiziana Lgbt Sarah Hegazy presa da Wikipedia. Attivista. ANSA/WIKIPEDIA
Una foto della attivista egiziana Lgbt Sarah Hegazy presa da Wikipedia. Attivista. ANSA/WIKIPEDIA

ROMA.  – “Ho cercato di sopravvivere, ma non ci sono riuscita”. A queste parole, vergate su un foglio, Sarah Hegazi ha affidato tutto il suo dolore e la sua angoscia prima di togliersi la vita in Canada.

In un luogo dunque lontano da casa per questa attivista dei diritti Lgbt egiziana che aveva lasciato il suo Paese due anni fa. Ma né la lontananza né il tempo trascorso erano bastati per lenire il trauma delle umiliazioni e i maltrattamenti subiti nei mesi passati in carcere.

La sua colpa, quella di essere stata fotografata mentre sventolava durante un concerto una bandiera arcobaleno del movimento Lgbt, di cui era attivista.

Era il settembre del 2017 quando Sarah, allora ventisettenne, fu arrestata. Una settimana dopo il concerto dello “scandalo”, quello della band indie rock libanese Mashrou Leila, il cui cantante, Hamed Sinno, è dichiaratamente gay.

“Era un atto di sostegno e solidarietà per tutti gli oppressi, ero fiera di innalzare quella bandiera e non immaginavo una tale reazione della società e dello Stato egiziani”, ha spiegato in seguito Sarah in un’intervista all’americana National Public Radio. Eppure quella reazione c’è stata, durissima.

Lei – unica donna – si è ritrovata tra una sessantina di attivisti finiti in carcere in quella che è considerata la più grande operazione contro attivisti Lgbt mai avvenuta in Egitto.

Un Paese dove l’omosessualità non è formalmente illegale, ma che discrimina e punisce chi è considerato un promotore di atti “immorali”. Tra questi, i gay, che, come in molti altri Paesi islamici, subiscono anche i pregiudizi e l’ostracismo della società e a volte vengono arrestati e sottoposti a pratiche umilianti, non ultimo l’esame anale teso presumibilmente ad accertare se hanno avuto rapporti omosessuali.

Atti che le organizzazioni per i diritti umani, come Amnesty International e Human Rights Watch, considerano vere e proprie torture.

Una volta arrestata, Sarah è stata incriminata per avere “promosso la devianza e la dissolutezza sessuale”. Un altro di coloro che sono finiti in carcere nella stessa operazione, Ahmed Alaa, è stato accusato di essere entrato “in un grupo illegale”. Entrambi hanno denunciato di aver subito torture in carcere, ma anche dopo il rilascio non hanno trovato pace.

Alaa è stato pubblicamente condannato dall’università che frequentava, e anche lui, riferiscono gli attivisti Lgbt, ha cercato di togliersi la vita. Sarah, rilasciata su cauzione nel gennaio 2018, è stata costretta a lasciare il lavoro e poi anche il suo Paese.

“La prigione mi ha ucciso, mi ha distrutto”, aveva detto la giovane nell’intervista a Npr, affermando di aver cercato di togliersi la vita e annunciando che avrebbe provato di nuovo.

Così è stato, e questa volta la sofferenza per il disturbo post-traumatico da stress che le era stato diagnosticato ha avuto la meglio su di lei. Così, nell’ultimo messaggio, la giovane attivista ha spiegato il suo gesto.

“Ai miei fratelli: ho cercato di trovare la redenzione e ho fallito, perdonatemi. Ai miei amici: l’esperienza è stata dura e sono troppo debole per resistere, perdonatemi. Al mondo: sei stato in gran parte crudele, ma io perdono”.

(di Alberto Zanconato/ANSA)

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