Pandemie e day after: gli untori da Manzoni a Deville

Untori: lopertina del libro "La colonna infame" di Alessandro Manzoni.
Untori: lopertina del libro "La colonna infame" di Alessandro Manzoni.

ROMA. – Se una cosa ci ricorda questa pandemia è che la natura è sempre più forte, più resistente dell’uomo. Non per nulla molti scrittori (e poi drammaturghi, registi di film e artisti diversi) da sempre hanno raccontato e creato storie esemplari, tra cronaca e metafora, su pestilenze, epidemie e altri cataclismi che cancellano o quasi il genere umano dalla terra e ne mettono a nudo la sua vera natura.

Allora questi romanzi, queste cronache di day after, queste supposizioni di arrivo al limite e di salvezza in extremis, con cui viviamo una qualche consonanza, possono essere qualcosa che ci aiuta a capire e riflettere su quel che ci sta accadendo in questo inizio 2020, magari a metabolizzarlo in qualche modo, così da ripartire, come si dice ora, sapendo almeno un poco di più chi siamo. Per secoli le pestilenze son state viste come punizioni divine.

Lo vediamo anche all’inizio della ”Iliade” con Apollo che lancia i suoi ”amarissimi dardi” appestati, prima colpendo muli e cani, poi le persone presso le navi così che per nove giorni ”fitte le pire ardean sempre dei morti”, e gli Achei, per placarlo e poter condurre avanti la guerra contro Troia, indagano venendo a scoprire che l’ira del dio nasce dal comportamento del re Agamennone, che ha offeso un suo sacerdote.

Ancora ne ”La peste” di Camus del 1947 sempre all’ira celeste si rifà padre Peneloux, ma c’è oramai l’uomo di scienza, il dottor Rieux, che contesta questa lettura e combatte la malattia con la conoscenza del meccanismo dei contagi.

Tra questi due lontani esempi c’è tutta una storia che ha visto emergere la figura dell’untore, responsabile nell’immaginario collettivo di propagare il male, con conseguenti persecuzioni e linciaggi di cui troviamo testimonianza già in Tito Livio.

A ricordo di alcuni di questi episodi, ovvero la condanna a Milano durante la peste del 1630 al supplizio atrocissimo della ruota di ”due miseri accusati di aver sparso veleni e malie per le strade ad accrescere la pubblica sventura”, fu eretta a monito una colonna di cui Alessandro Manzoni ci parla nella sua ”Storia della Colonna Infame”, appena ristampata con una nota di Sciascia che vorrebbe questo testo fosse più conosciuto e studiato (Sellerio, pp. 194 -12,00 euro).

Una affascinante ricostruzione storica, in vista della narrazione dei ”Promessi sposi”, che affronta il rapporto tra responsabilità personali e convinzioni e superstizioni singole o collettive, mostrando l’errore e l’abuso di potere commesso dai giudici senza alcuna umana pietà su basi del tutto infondate e create solo dalla paura dell’epidemia.

La colonna, infame oramai per i giudici e non più per i condannati, fu abbattuta nel 1778. Eppure il sessantenne scrittore francese Patrick Deville, che ricostruisce in forma di romanzo la vita dello svizzero Alexandre Yersin, scopritore oltre un secolo fa proprio del bacillo della peste, che porta il suo nome (Yersina pestis) e creatore del suo vaccino, quando fugge dalla Francia occupata dai nazisti gli fa notare:

”Cinque secoli indietro la vastità del flagello è metafisica, testimonia lo sdegno divino, il Castigo. Gli abitanti di Villeneuve sul lago di Ginevra hanno bruciato vivi gli ebrei, accusati di diffondere l’epidemia avvelenando i pozzi. Cinque secoli dopo, nonostante il passo indietro dell’oscurantismo, l’odio è lo stesso”.

Hitler fa degli ebrei degli untori, e li perseguita e stermina. Il romanzo di Deville intitolato ”Peste & colera” (Edizioni E/O, pp. 210 – 18,00 euro) ha un suo fascino come appunto la vita tutta particolare del dottor Yarsin, studente a Parigi allievo del microbiologo Roux e poi di Pasteur che sta sperimentando il vaccino antirabbica, così che gli si apre una grande carriera accademica e professionale, ma lascia tutto per fare il medico di bordo nei mari dell’Asia dove si innamora del Vietnam (allora francese) e vi trascorre gli anni della Grande Guerra prima di tornare in patria e poi ripartire appunto nel 1944 per restarvi sino alla morte nel 1943.

Si ritira nel paese di pescatori Nha Trag dove fonda un Institut Pasteur e una comunità scientifica e agricola. ”Non aver scoperto il bacillo della peste lo condannerebbe a morire un esploratore sconosciuto tra le migliaia di esploratori sconosciuti. Basta una puntura sulla punta del dito come nelle favole. Ma è sempre così la vita romantica e ridicola degli uomini. Sia che tratti la peste o muori di cancrena”.

Scienziato nel cuore, non ama lo studio sui libri ma l’osservazione in laboratorio e in natura. Ha un’anima di avventuriero, sogna di diventare come Livingstone. Fu lui a introdurre molte specie di piante in Vietnam, tra cui caffè, cacao, china e sviluppò la coltivazione degli alberi della gomma, collaborando anche con la Michelin.

Un vero personaggio da romanzo la cui vita è segnata dalla peste, quando la incontra da Hong Kong nel 1894 e poi a Canton fu il primo medico a curarne una vittima. Un personaggio che oggi ci ricorda il senso e il ruolo della ricerca e della scienza nella difesa dell’uomo dai mali che gli propone la natura e che altrimenti affronterebbe sconsideratamente e guidato solo dalla paura.

(di Paolo Petroni/ANSA)

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