Mafia: maxiblitz a Palermo, 91 arresti. “Cosa Nostra pronta a sfruttare la crisi Covid”

Guardia di Finanza.
Guardia di Finanza.

PALERMO. – I nomi sono storici e raccontano di una mafia antica, saldamente legata a quella degli stragisti corleonesi, fortemente radicata sul territorio, pronta a sfruttare le opportunità offerte dalla crisi economica al tempo del coronavirus.

La mafia dell’Acquasanta, il clan che da sempre controlla i Cantieri Navali e il mercato ortofrutticolo di Palermo, il clan dei Galatolo e dei Fontana. Boss sanguinari che dal loro quartiere generale di vicolo Pipitone, pochi metri di asfalto tra case venute su senza cura, hanno ordinato estorsioni, omicidi, pianificato attentati come quello dell’Addaura, ancora tutto da chiarire, in cui sarebbe dovuto morire Giovanni Falcone.

Passano gli anni, ma i protagonisti che contano in Cosa nostra sono sempre gli stessi: ne è prova l’ultima inchiesta della Dda di Palermo guidata da Francesco Lo Voi che ha colpito al cuore le cosche dell’Arenella e dell’Acquasanta svelandone vertici, quadri e picciotti.

Morto il capostipite, Stefano Fontana, lo scettro è passato ai figli e alle nuore, secondo la tradizione mafiosa che tramanda il potere di generazione in generazione. Da anni, i fratelli Fontana, Gaetano, Giovanni e Angelo, arrestati e usciti di galera dopo aver scontato la pena, avevano lasciato la Sicilia per trasferirsi a Milano, dove, grazie a prestanomi, professionisti collusi e commercianti amici avevano messo su una loro filiale di Cosa nostra.

Commercio di orologi di lusso che portava fino a 100 mila euro al mese grazie all’aiuto di un gioielliere lombardo, vendita di caffè attraverso società intestate a teste di legno come un ex concorrente del Grande Fratello, passato dai reality al fiancheggiamento mafioso, investimenti immobiliari.

Ma il cuore e parte del portafogli dei Fontana era rimasto a Palermo dove i loro uomini, Giovanni Ferrante, Domenico Passarello e una lunga lista di picciotti fedeli, tutti arrestati oggi, gestivano le estorsioni, i traffici di droga, gli appalti e le commesse ai Cantieri Navali, le scommesse online e perfino le corse dei cavalli truccate.

Ferrante usava attività commerciali del quartiere per riciclare i soldi sporchi, ordinava estorsioni e imponeva l’acquisto di materie prime e generi di consumo scelti dall’organizzazione. Già condannato per mafia, dal 2016 era in affidamento in prova ai servizi sociali. Uscito dal carcere, ha consolidato la propria posizione all’interno della famiglia mafiosa e per la gestione degli affari illeciti usava come intermediatrice la compagna, Letizia Cinà.

Molto temuto, modi violenti, in una intercettazione dopo essere stato scarcerato dice: “Oramai non ho più pietà per nessuno! Prima glieli davo con schiaffi, ora glieli do con cazzotti… a colpi di casco… cosa ho in mano… cosa mi viene”. E la gente del quartiere obbediva in silenzio. Pochissime le denunce delle vittime del pizzo, dice il procuratore Lo Voi. In un contesto di degrado e povertà che rischia di essere terreno ancor più fertile per la mafia al tempo della pandemia.

“Le misure di distanziamento sociale e il lockdown su tutto il territorio nazionale, imposti dai provvedimenti governativi per il contenimento dell’epidemia, hanno portato alla totale interruzione di moltissime attività produttive, destinate, tra qualche tempo, a scontare una modalità di ripresa del lavoro comunque stentata e faticosa, se non altro – scrive il gip nella misura cautelare – per le molteplici precauzioni sanitarie da adottare nei luoghi di produzione.

Da una parte, l’attuale condizione di estremo bisogno persino di cibo di tante persone senza una occupazione stabile, o con un lavoro nell’economia sommersa, può favorire forme di soccorso mafioso prodromiche al reclutamento di nuovi adepti”.

Tremila pagine dense di accuse: 91 arrestati e beni sequestrati per 15 milioni di euro. Un’inchiesta accurata della Valutaria della Guardia di finanza durata anni che è tornata a “illuminare” l’ombra della mafia nei Cantieri navali.

Attraverso ditte “amiche”, la mafia del clan Acquasanta gestiva appalti e commesse. La cooperativa Spa.ve.sa.na, finita al centro dell’indagine, sarebbe stata l’avamposto della cosca all’interno dei cantieri, lo strumento con cui, appunto, gestire appalti, subappalti e commesse. Intercettato, il boss Giovanni Ferrante definiva la società “cosa nostra”.

(di Lara Sirignano/ANSA)