Prove di disgelo tra Usa e Cina sui dazi, ma Trump frena

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump saluta al presidente della Cina Xi Jinping in un incontro al margine del Summit del G2O in Giappone, nel giugno 2018. (AFP/Brendan Smialowski)

WASHINGTON.  – Prove di disgelo sull’asse Washington-Pechino, protagoniste nelle ultime settimane di uno scontro che ha assunto sempre più toni da Guerra Fredda.

É uno degli effetti collaterali della crisi del coronavirus, con Donald Trump deciso (anche in chiave elettorale) a puntare il dito contro le responsabilità della Cina per l’esplosione della pandemia.

A rischio è la tregua sui dazi che però, nelle ultime ore, le due capitali si sono affettate a confermare: virus o non virus la tregua reggerà, e la fase uno dell’accordo commerciale raggiunto tra le due più grandi potenze economiche sarà attuata.

Anche se il presidente americano, tanto per non smentire la sua ormai proverbiale imprevedibilità, frena gli entusiasmi: ancora – il suo monito – non e’ stata presa alcuna decisione.

E sí, perchè Trump la scorsa settimana aveva minacciato nuovi dazi contro la Cina, proprio come rappresaglia per la presunta “fuga” del virus da un laboratorio di Wuhan e la mancata trasparenza del governo cinese, che all’inizio della crisi si sarebbe rifiutato di svelare quanto stava realmente accadendo e di condividere i dati col resto del mondo.

“Abbiamo le prove”, aveva detto il segretario di stato Usa Mike Pompeo, anche se finora nulla è stato mostrato a favore della tesi della Casa Bianca. Con Trump che ha ribadito la teoria della “fuga” del virus pur affermando di non credere che la leadership guidata da Xi Jinping lo abbia fatto apposta.

I mercati comunque sembrano credere a una possibile distensione, evitando un tracollo sull’onda dei catastrofici dati dell’occupazione Usa e scommettendo sul fatto che nessuno – ne’ Washington ne’ Pechino – hanno in questa fase l’interesse a peggiorare la situazione.

La possibile schiarita è arrivata nel corso di una conference call tra il vicepremier cinese Liu He e le principali controparti Usa, tra cui il segretario al Tesoro Steven Mnuchin.

Si tratta del primo colloquio ufficiale da quando è esplosa in tutto il mondo la pandemia, a fine gennaio. Entrambe le parti hanno parlato di “buoni progressi” compiuti per creare i presupposti di un accordo commerciale di successo. É stato cosi’ ribadito l’impegno di entrambe le parti a rispettare gli obblighi assunti per la cosiddetta fase 1, quella che dovrebbe precedere una seconda e più ampia intesa.

La fase 1 équella che prevede tariffe Usa ferme al 25% su una vasta gamma di prodotti importati dalla Cina e che l’amministrazione Trump considera strategici e di elevato valore economico: dalle automobili ai componenti per i reattori nucleari. In cambio Pechino si e’ impegnata nell’arco di due anni a comprare dagli Usa almeno 200 miliardi di dollari di beni aggiuntivi rispetto ai livelli raggiunti nel 2017: prodotti nei settori agroalimentare, manifatturiero, energetico e dei servizi.

Non solo: le autorità cinesi dovranno rafforzare le norme per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale e aprire maggiormente i propri mercati ai servizi finanziari delle società americane.

Intanto Pechino sembra aprire sul fronte di un’indagine sulle origini della pandemia sotto l’egida dell’Organizzazione mondiale della sanitá, anche se “l’iniziativa dovrebbe essere condotta in modo aperto, trasparente e inclusivo, nonché al “momento più opportuno, quando la pandemia sarà finita”.

Non aiuta però a rasserenare gli animi l’ultima bordata partita da Washington: Cina e Russia hanno accelerato la loro cooperazione in materia di propaganda per alimentare la disinformazione sulla pandemia e trarne vantaggio, accusa il Dipartimento di stato.

(di Ugo Caltagirone/ANSA)

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