Impiccati in India gli stupratori del bus a Delhi

Il padre (secondo a destra) e la madre (seconda a sinistra) di Nirbhaya insiene all' avvocata Jitendra Kumar Jha (D) celebrano l'impiccagione dei condannati
Il padre (secondo a destra) e la madre (seconda a sinistra) di Nirbhaya insiene all' avvocata Jitendra Kumar Jha (D) celebrano l'impiccagione dei condannati. (ANSA/ EPA/RAJAT GUPTA)

NEW DELHI.  – Li hanno impiccati all’alba, nel carcere di Tiham a sud di Delhi, dove tutto era pronto da mesi.  Akshay Thakur, Vinay Sharma, Pawan Gupta e Mukesh Singh sono stati i primi indiani condannati a morte per il reato di stupro, per avere violentato e torturato a morte su un bus, in una será che l’India non dimenticherà il 16 dicembre del 2012, Nirbhaya, una studentessa di 23 anni.

I quattro, assieme ad altri due complici, erano stati stati  condannati in tempi strettissimi, con una sentenza emessa nel febbraio del 2013. Ma ci sono voluti sette anni, e solo nell’ultimo mese e mezzo tre rinvii della data fissata, perché la sentenza venisse eseguita. Nel frattempo, uno degli altri due complici, l’autista dell’autobus, è morto in carcere suicida, mentre il sesto, allora minorenne, è tornato in libertà dopo avere scontato tre anni in un riformatorio giovanile.

“Abbiamo dovuto attendere, ma non abbiamo mai perso la speranza” ha dichiarato ai media Asha Devi, la madre della ragazza: “Nessuno ci restituirà nostra figlia, ma almeno, da oggi, le indiane possono sperare che i colpevoli di delitti così atroci vengano puniti come meritano”.

Nirbhaya, ovvero “senza paura” come la ribattezzarono i media durante l’inchiesta e il processo, quando il vero nome della vittima non poteva essere rivelato, fu stuprata e gettata dalla gang lungo una strada periferica dopo alcune ore di atroci torture. La ragazza venne soccorsa da alcuni passanti, e súbito ricoverata in un ospedale di Delhi ma morì nella notte del 29 dicembre, a Singapore dove era stata trasferita per le brutali ferite riportate.

Prima di perdere conoscenza, ancora a Delhi, la giovane era riuscita a trovare la forza di raccontare le brutalità subite e descrivere i suoi aguzzini a una commissaria di polizia che, con determinazione e testardaggine, riuscì in pochi giorni ad individuare i colpevoli e farli arrestare.

Il caso suscitò in tutta l’India un’ondata di proteste senza precedenti, con manifestazioni che dilagarono dalla capitale a tutte le maggiori città: migliaia di uomini e donne scesero per la prima volta in strada per chiedere maggiore sicurezza nelle strade, ma anche nelle case.

Il governo decise di creare una corsia preferenziale e procedimenti speciali per i casi di stupro: il processo agli   accusati iniziò in tempi strettissimi, nemmeno un mese dopo, il 17 gennaio del 2013. E il 3 febbraio successivo, in risposta all’indignazione pubblica, il governo approvò una legge che prevede anche la pena capitale nel casi in cui uno stupro finisca con la morte della vittima o danni irreversibili.

Ma nonostante l’inasprimento delle pene, tanti sono i casi segnalati dai media indiani: secondo i dati ufficiali del National Crime Records Bureau la polizia ha registrato 3.977 casi di stupro nel 2018, in media 93 al giorno.

E oltre 150 mila sono i casi di abusi e violenze sessuali su bambini, registrati nei commissariati di tutta l’India negli ultimi sette anni, secondo un’indagine commissionata dalla Corte Suprema per verificare l’attuazione del Pocso, la legge nazionale, approvata nel 2012, che si proponeva di difendere anche i bambini dagli abusi sessuali.

 (di Rita Cenni/ANSA)

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