L’Unione Europea e la lezione del Coronavirus

Travolta dal ciclone Coronavirus, anche la Spagna, come l’Italia, dopo le prime misure di contenzione, ha deciso di decretare lo “Stato di Allarme”. Questo prevede un pacchetto di provvedimenti che, se rispettato, dovrebbe permettere di contenere il virus. Ma non accadrà d’immediato. Richiederà mesi. Sarà un ritorno alla normalità graduale, lento. E solo una volta riconquistata la quotidianità si potrà fare un bilancio reale delle perdite umane ed economiche.

I migliori alleati del virus siamo noi. Proprio così. In Spagna, come accaduto già in Italia, la tendenza è a sottovalutare la gravità della situazione. E così c’è chi approfitta della decisione del governo di chiudere scuole, università, negozi per dedicarsi all’ozio all’aria libera. Tradotto in parole povere, per gironzolare in bicicletta, recarsi ai parchi, alle località di montagna e in spiaggia. Da qui, ad esempio, la chiusura del Parco “El Retiro”, di quello di “Guadarrama” o delle spiagge delle varie località turistiche. La presa di coscienza, è già accaduto in Italia, tarda a far breccia. E ciò a detrimento di un’effettiva azione di contenzione del virus. Chiudersi in casa, imporsi una quarantena volontaria, è duro. Ma è un sacrificio necessario.

Come ogni cittadino del Paese, anche i connazionali residenti in Spagna dovranno attenersi alle istruzioni delle autorità sanitarie. Con responsabilità e di buon grado. Senza esagerazioni. Ma neanche sottovalutando la gravità della situazione. È stato l’atteggiamento superficiale, a volte provocatorio, che ha permesso al virus di propagarsi con una velocità impensata in Italia. Bisogna imparare dagli errori.

Per il momento, tanto in Italia, come in Spagna, la stretta non è ancora totale. Le autorità sanitarie e quelle economiche hanno infatti cercato di conciliare la necessità di combattere il virus con quella di mantenere il funzionamento benché assai ridotto della struttura produttiva. Se il Coronavirus dovesse obbligare ad una serrata, le conseguenze per il tessuto produttivo dei due paesi sarebbero incommensurabili. A risentirne sarebbero soprattutto le piccole e medie imprese che sono l’ossatura del sistema economico. Non tutte hanno le capacità di adeguarsi allo smart-working. Non tutte, per le proprie caratteristiche, possono approfittare dei vantaggi che offrono le nuove tecnologie della comunicazione né riconvertirsi momentaneamente al telelavoro. Molte, una volta superata la crisi, non riaprirebbero. Andrebbe perso un patrimonio costruito con sacrifici e tanto lavoro. Anche per questo, per difendere i posti di lavoro, è necessario rispettare lo “Stato d’Allarme”.

Il Coronavirus ha aperto il dibattito tra chi difende l’abbattimento delle frontiere e chi, invece, predica un ritorno ai vecchi concetti di territorialità; tra chi vede nell’apertura e nella globalizzazione una opportunità di crescita e chi, invece, li considera nocivi per la salute delle nazioni; tra chi difende l’Unione Europea come la maggiore conquista del secolo XX e chi invece la ritiene il peggiore errore commesso il secolo scorso.

Certamente la diffusione del virus rappresenta una nuova prova per l’Unione Europea. E mette in evidenza la necessità di approfondire il processo di integrazione nell’ambito della sanità. La centralizzazione delle decisioni sicuramente non avrebbe evitato che l’epidemia si diffondesse in Europa. Ma almeno i Paesi dello spazio Schengen avrebbero reagito con un corpo di provvedimenti coerenti. L’esperienza delle ultime settimane insegna che la soluzione non è chiudersi nel proprio guscio, alzare muri o ridisegnare barriere.

L’europeismo, negli ultimi anni sopraffatto dall’ondata nazionalista, torna a reclamare il suo ruolo di protagonista. E il Manifesto di Ventotene, autori del quale furono Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, acquista nuovamente attualità. Rimane il primo documento moderno che aspira ad un’Europa profondamente unita. La moneta unica e l’organizzazione militare, ampliata agli Stati Uniti d’America, furono i maggiori progressi dell’Unione Europea che, nata nel 1957 con il Trattato di Roma, avrebbe dovuto diventare un continente unificato con leggi proprie e proprie strutture politiche, economiche e sociali. Superato questo momento di difficoltà, si dovrà riprendere il progetto sognato da Spinelli, Colorni e Rossi oltre mezzo secolo fa e procedere verso una graduale ma in ogni caso importante unione. L’espansione del “coronavirus” insegna che divisi siamo più vulnerabili.

Mauro Bafile

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