WASHINGTON. – Paura crescita: travolta dall’emergenza coronavirus la Cina valuta una riduzione delle stime di crescita per il 2020. Lo fa mentre la crisi gela le borse di Shanghai e Shenzhen che, alla riapertura dopo le festività del capodanno lunare, bruciano 420 miliardi di dollari non rassicurate dalle iniezioni di liquidità decise da Pechino.
Ma gli investitori non sono gli unici a essere preoccupati. Alla finestra c’è anche l’Opec: il cartello dei paesi produttori potrebbe anticipare la sua riunione all’8 e 9 febbraio per discutere soluzioni e rimedi all’emergenza Cina, dove la domanda di greggio è crollata del 20% mettendo sotto forte pressione le quotazioni dell’oro nero. Il Brent è sceso ai minimi degli ultimi 13 mesi, mentre il Wti è scivolato sotto i 50 dollari al barile per la prima volta da oltre un anno. Crolli che stanno spingendo l’Arabia Saudita a valutare misure drastiche.
Gli scenari a cui Ryad lavora sono due: il primo prevede una riduzione complessiva della produzione dell’Opec di 500.000 barili al giorno fino alla fine della crisi cinese. Un taglio che andrebbe ad aggiungersi a quello dello stesso ammontare deciso in dicembre. L’altra alternativa, quella più estrema, vede l’Arabia Saudita in prima linea con l’impegno a una riduzione temporanea da 1 milione di barili al giorno, in modo da creare uno shock sul mercato evitando una caduta libera delle quotazioni.
Per Ryad si tratterebbe di una commessa pericolosa: un taglio così drastico avrebbe un forte impatto sui ricavi con il pericolo di mettere a rischio gli sforzi del paese per diversificare la propria economia riducendo la dipendenza dal greggio.
In questo scenario le borse cinesi sono quelle che pagano il prezzo più alto. Le misure di sostegno varate da Pechino non sono bastate a stemperare la paura, soprattutto per gli effetti del coronavirus sull’economia. Da qui l’ipotesi di una revisione al ribasso delle stime di crescita per il 2020, quando il pil dovrebbe inchiodarsi intorno al 6%. E la speranza che gli Stati Uniti di Donald Trump concedano una maggiore flessibilità nell’attuazione da parte di Pechino degli impegni previsti dalla Fase 1 dell’accordo commerciale fra i due paesi.
L’intesa suggellata il 15 gennaio è prevista entrare in vigore alla metà di febbraio. Una clausola dell’accordo impegna però Washington e Pechino a consultarsi “in caso di disastri naturali e di evento imprevedibili”. Proprio in quest’ultima categoria potrebbe rientrare il coronavirus: non è ancora chiaro se la Cina abbia già compiuto il passo formale per avviare le consultazioni ma, secondo indiscrezioni, una mossa in questo senso è attesa. A fare i conti sull’effetto dell’emergenza sull’economia è anche la Casa Bianca.
Le stime preliminare indicano un impatto contenuto, dell’ordine dello 0,2% sul pil del primo trimestre. Ma, mettono in guardia dal Consiglio degli advisor economici del presidente americano, si tratta di previsioni suscettibili a forti sbalzi considerata la volatilità della situazione e alla luce del fatto che il coronavirus ha già fatto in Cina più morti della Sars.
Al crollo delle borse cinesi si contrappone la tenuta delle piazze finanziarie europee e di Wall Street. Nel Vecchio Continente brilla Milano: Piazza Affari chiude la prima seduta del mese in rialzo dello 0,96% invertendo rotta rispetto agli scivoloni delle ultime due sedute. Più contenti i guadagni di Francoforte (+0,49%) e Parigi (+0,45%). Wall Street apre in volata con rialzi superiori all’1% poi rallenta cercando di digerire gli interventi messi in campo dalle autorità contro il coronavirus e di puntare l’attenzione sulle trimestrali.