Blair regola i conti con Corbyn: “Basta col socialismo”

L'ex premier del Regno Unito Tony Blair (S) e Jeremy Corbyn (D), leader del Labour Party, sconfitto nelle elezioni britanniche. (hispantv.com)

LONDRA. – Una resa dei conti che – a parole – non è diretta “contro la persona” di Jeremy Corbyn, ma che più personale non potrebbe essere. La disfatta elettorale del Labour britannico offre il destro a Tony Blair per tornare al centro del dibattito politico del partito che per ultimo fu capace di condurre alla vittoria quasi 15 anni fa.

Non più popolare nella base dei militanti, ma molto ascoltato dai media, l’ex premier coglie l’occasione di un discorso a Londra per scagliare il suo j’accuse contro il leader sconfitto imputando a lui e solo a lui, alla sua svolta a sinistra, il risultato “vergognoso” delle urne e incalzando i compagni a “non insabbiare” l’accaduto, ma a liquidare l’eredità di Jeremy come “una fantasy island”.

I toni sono durissimi e non c’è da sorprendersi. Artefice  carismatico e spregiudicato a suo tempo della strategia liberal e moderata del cosiddetto “New Labour”, Blair non ha mai sopportato Corbyn, polo opposto nel partito, con la sua storia di attivista radicale e pacifista contrario ad esempio alla guerra in Iraq.

Un’ostilità – ricambiata – che ora si traduce nella più spietata delle analisi del voto. Tony definisce “quasi comica l’indecisione” mostrata da Jeremy sulla Brexit, gli imputa di non aver saputo affrontare i rigurgiti di antisemitismo nel partito (provocando “il disgusto” di persone come lui), di aver impersonato un “socialismo quasi rivoluzionario” bollato come “estremista” in economia e “antioccidentale” in politica estera.

La critica non si ferma del resto ai programmi, rasentando l’insulto quando Blair dà di fatto dello “stupido” (fool) a Corbyn, rinfacciandogli di aver presentato sì qualche proposta popolare, ma nel quadro di “un programma di cento pagine che prometteva tutto gratis a tutti”.

Sostenitore acceso del fronte pro Remain, l’ex inquilino di Downing Street non ammette d’altro canto che la batosta maturata soprattutto nei collegi operai rossi dell’Inghilterra profonda, ad alto tasso di simpatie euroscettiche, abbia avuto a che vedere con la campagna per un secondo referendum sulla Brexit da lui stesso invocata con forza e alla fine sposata dal Labour; semmai al fatto che Corbyn non abbia accettato di farsi da parte per dare spazio a una coalizione patchwork anti-Tory che – nelle sue idee – avrebbe dovuto tentare la scalata al governo nella precedente legislatura e allontanare le elezioni che alla fine hanno “consegnato il nostro Paese” a Boris Johnson.

La sua ricetta per il Labour prossimo venturo è ora quella di tornare sulla strada di “una moderna coalizione progressista con la capacità di vincere elezioni e mantenere il potere. O ammettere di avere esaurito la propria missione originale”.

Ma è una ricetta a cui nessuno dei candidati potenziali alla successione di Corbyn – che resta nella bufera, ma ha rinviato le dimissioni all’inizio dell’anno prossimo per guidare il passaggio di consegne – accetta di rifarsi apertamente. Almeno non con il marchio blairiano, visto quasi come un bacio della morte di fronte a una platea d’iscritti salita a circa 600.000 persone negli ultimi anni e spostatasi decisamente a sinistra.

Non Emily Thornberry, ministra degli Esteri ombra corbyniana e prima pretendente a formalizzare oggi la discesa in campo, che pure dal leader uscente non manca di prendere le distanze con un ben più netta posizione anti-brexiteer.

E neppure Keir Starmer, favorito dei bookmaker e a sua volta ministro ombra in carica, che pur interpretando una linea e un retroterra più soft ed ecumenica del compagno Jeremy preannuncia la propria sfida invocando “fedeltà ai valori” di un radicalismo rinnovato: non senza rivendicare con orgoglio di essere “un socialista”.

Mentre la 38enne Jess Phillips, la più lontana da Corbyn fra i possibili aspiranti, si affretta a mescolare le critiche alla leadership uscente con un’apertura al dialogo verso la massa dei giovani corbyniani del movimento Momentum e ad assicurare di non meritare l’etichetta di “blairita”: anzi, di essere stata eletta deputata ben “8 anni dopo” l’uscita di scena di Tony e di aver “marciato” anche lei contro l’invasione dell’Iraq.

(di Alessandro Logroscino/ANSA)

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