Nelle multinazionali in Italia quasi un milione e mezzo di lavoratori

Una operaia al lavoro in una industria. metalmeccanica
Una operaia al lavoro in una industria metalmeccanica (Ansa)

MILANO. – Le multinazionali in Italia non sono solo imprese di proprietà estera che chiudono i battenti lasciando a casa i dipendenti, come Whirlpool o Pernigotti. Fra grandi e piccole aziende il loro numero ammonta a 14.616 (nel 2017) e, pur rappresentando solo lo 0,3% delle aziende residenti nel nostro Paese, danno lavoro a 1,31 milioni di persone, vale a dire al 7,9% degli occupati nel settore privato, contribuiscono per il 15,1% al valore aggiunto prodotto dalle imprese (113 miliardi) e generano il 18,3% del fatturato (539 miliardi), il 14,4% degli investimenti (13,1 miliardi) e finanziano ben il 25,5% della spesa privata in ricerca e sviluppo (3,6 miliardi).

Inoltre hanno un effetto moltiplicatore. Ogni euro investito determina una crescita complessiva della produzione industriale di circa 2,8 euro, considerando effetti diretti, indiretti e indotti.

In termini occupazionali l’impatto è altrettanto importante: per ogni occupato in più nelle grandi multinazionali estere si generano nell’intero sistema economico quattro posti di lavoro aggiuntivi. Per questo conviene tenerle in Italia. Giocando se possibile in anticipo, quando sono ancora sane, per non arrivare in ritardo quando c’è ormai poco da salvare.

E’ su questo fronte che si focalizza l’Advisory Board investitori esteri di Confindustria. “Attrarre nuovi investimenti è fondamentale ma occorre lavorare sulla retention”, osserva Licia Mattioli, presidente dell’Advisory Board e vicepresidente per l’internazionalizzazione dell’associazione di Viale dell’Astronomia, sottolineando che se le imprese a capitale estero in Italia non arrivano o se ne vanno “non è per le tasse o il costo del lavoro ma soprattutto per la mancanza di certezze del diritto civile e fiscale, la lentezza della giustizia e la burocrazia”.

Come primo passo l’associazione che raggruppa le multinazionali ha quindi messo in campo l’idea di un servizio di ‘customer care’ in coordinamento con le autorità locali. Si tratta di protocolli per “rafforzare il rapporto tra imprese, le Regioni e i comuni più grandi, come è il caso di Milano, e favorire così la conoscenza in anticipo di opportunità e di minacce per evitare crisi aziendali”, spiega Eugenio Sidoli, coordinatore dell’Advisory Board e presidente di Philip Morris Italia.

Sono già stati siglati accordi con Toscana, Lazio ed Emilia Romagna e per fine anno si attende quello con la Campania per arrivare presto anche al Veneto, alla Lombardia, all’Umbria e alla Liguria. L’impegno dell’Advisory Board è rivolto anche alla reputazione visto che “c’è la tendenza a raccontare le storie di insuccesso”.

Su questo fronte è nato il primo di tre volumi, dal titolo ‘Grandi Imprese Estere in Italia: Un valore strategico’ realizzato con l’Istat e pieno di dati. Ne seguirà uno dedicato a 30 storie di successo, come i marchi Gucci e Bottega Veneta (Kering), Lamborghini, Novartis e la stessa Phillip Morris. L’ultimo volume verterà su reputazione e sostenibilità.

(di Marcella Merlo/ANSA)

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