LONDRA. – Il coniglio che spunta dal cilindro nasconde un trucco, come sempre. É vero anche per l’accordo rivisto sulla Brexit fra Londra e Bruxelles che pare prendere forma in queste ore. Ma se Boris Johnson riesce a portarlo a casa – e a farlo passare in un modo o nell’altro al Parlamento di Westminster, a differenza di quanto capitato a Theresa May – alla fine conterà poco: il vincitore di questa mano di poker a Londra sarà lui, almeno nell’immediato e con ogni probabilità sino al momento delle elezioni anticipate britanniche che tutti si attendono prima di fine anno.
I se restano ancora tanti, sia chiaro. Così come gli ostacoli, le pietre d’inciampo, gli artifici in parte da decifrare. E tuttavia la luce in fondo al tunnel incomincia a illuminare i paletti del sentiero verso il traguardo possibile, verso un testo sufficientemente articolato (o ambiguo) da poter risultare digeribile a tutti o a quasi tutti.
Il nodo è quello di un meccanismo alternativo alla clausola vincolante del backstop – prevista per volere dei 27 nell’accordo raggiunto con May, ma inaccettabile per Johnson e i suoi alleati – a garanzia di un confine post Brexit senza barriere fra l’Irlanda del Nord britannica e la Repubblica d’Irlanda.
Confine senza barriere imposto dallo storico accordo di pace irlandese del Venerdì Santo 1998. Per scioglierlo il premier Tory sembra pronto a fare una concessioni ai limiti della blasfemia: con l’introduzione di una qualche forma di controllo doganale fra il territorio nordirlandese e il resto del Regno Unito, attraverso il mare, per quelle merci europee che l’Ulster potrà continuare a scambiare invece liberamente tramite la “non frontiera” terrestre con Dublino: a tutela dell’integrità del single market Ue.
In cambio si garantirà del resto l’uscita dall’Ue il 31 ottobre, senza rinvii, come promesso infinite volte: un’uscita che, almeno in termini d’immagine, Londra e Belfast potranno dire d’aver imboccato insieme come componenti di un unico territorio doganale.
Fonti diplomatiche europee ammiccano sul fatto che in sostanza, con questo marchingegno, l’Irlanda del Nord resterà “de jure parte dell’unione doganale britannica”, ma “de facto agganciata all’unione doganale europea”. Almeno per ora.
Mentre per completare il quadro rimane da capire quanta voce in capitolo (il cosiddetto ‘consent’) sarà attribuita all’assemblea locale di Stormont, a Belfast, sulla durata di una soluzione a cui gli oppositori del backstop pretendono quanto meno di poter dare un carattere temporaneo. Ma soprattutto è da verificare il sostegno che BoJo potrà trovare a Westminster.
Theresa May, bocciata tre volte nei mesi scorsi sull’intesa che prevedeva il backstop, profetizzò che nessun primo ministro di Sua Maestà avrebbe mai potuto accettare un ipotetico confine doganale di fatto fra Ulster e Gran Bretagna. Ma lei non era una brexiteer, mentre Johnson lo è.
E forse non ha tutti i torti quando – seppur azzardando – rassicura il premier irlandese Leo Varadkar d’essere “fiducioso” di poter strappare l’ok anche dei falchi su un accordo certificato dal suo nome. Fiducia che le prime reazioni dei 10 alleati unionisti nordirlandesi del Dup rischiano di scuotere.
Ma che il via libera sostanziale degli euroscettici Tory più oltranzisti, quelli dell’European Research Group (Erg) dell’ex viceministro Steve Baker, incoraggia. Tanto più se – in un voto destinato a decidersi col cuore in gola, sul ciglio del baratro di un no deal e con le urne in vista – arriverà il soccorso decisivo d’una ventina di deputati laburisti e oppositori vari eletti in collegi pro Brexit.