Johnson e l’Ue a un passo dalla rottura sulla Brexit

Un manifestante chiede si verifichi il Brexit e mostra un cartello con la scritta: "Uscire (dall'Unione Europea) significa uscire". (Panorama)

LONDRA. – Il conto alla rovescia sulla Brexit è scattato, ma salvo miracoli scandisce la corsa verso la rottura, non verso l’accordo, fra Londra e Bruxelles. Un epilogo destinato a consumarsi entro questa settimana, secondo le ultime indiscrezioni fatte filtrare ad arte da Downing Street in quello che un furibondo Donald Tusk denuncia ormai xit apertamente come il gioco di Boris Johnson a uno “stupido scaricabarile”.

Un gioco a cui peraltro anche il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, rifiuta di prestarsi. Martellando – dopo un incontro serale a Londra di un’ora con lo stesso primo ministro britannico, definito “vivace” da chi c’era – su tre punti: che al momento “non ci sono progressi”; che l’alternativa a un’intesa è una proroga su cui Strasburgo sarebbe “aperta” o un no deal dalle conseguenze molto “negative”; e che un divorzio hard sarebbe “responsabilità del governo” del Regno Unito.

In precedenza, nella giornata, le indiscrezioni sono state tutte di marca britannica, frutto dei briefing affidati a portavoce anonimi o delle imbeccate al settimanale amico Spectator di una gola profonda dietro il cui paravento la Bbc intravvede in effetti il profilo del Rasputin personale del premier Tory: il tessitore di trame elettorali Dominic Cummings.

Il messaggio è quello di prepararsi al peggio. E il tentativo è di additare fin d’ora come colpevoli l’Ue o magari Angela Merkel.

Bruxelles viene accusata di non essersi “mossa di un centimetro” negli ultimi negoziati e avvertita che non ci saranno altre chance o vie d’uscita dopo il piano Johnson, salvo un salto nel vuoto in cui potrebbe venir messa in discussione persino la cruciale cooperazione nel campo della sicurezza fra il Regno e i 27.

La cancelliera tedesca, invocata in questi mesi come la figura più incline al compromesso, diventa da parte sua improvvisamente il signornò di turno. Almeno stando al racconto delle fonti dell’entourage johnsoniano di una conversazione telefonica “franca” (alias tempestosa) con Boris. Conversazione in cui Merkel avrebbe parlato di accordo “essenzialmente impossibile” sulla base delle proposte avanzate dal successore di Theresa May il 2 ottobre in alternativa al vincolo del backstop a garanzia di quel confine irlandese senza barriere previsto dagli accordi di pace del Venerdì Santo 1998.

E si sarebbe spinta a evocare un diktat sulla permanenza dell’Irlanda del Nord nell’unione doganale, con tanto di minaccia di veto.

Una polemica che Berlino ha evitato con cura di raccogliere, limitandosi a insistere come la cancelliera non voglia il no deal, terrore di tanti attori del business britannico, tedesco o di altri Paesi.

E che anche i portavoce di Bruxelles hanno preferito in sostanza ignorare, al pari del capo negoziatore Michel Barnier, reduce oggi da un incontro dai toni il più possibile concilianti con il ministro italiano Vincenzo Amendola.

Ma che ha trovato invece pronto ad abboccare all’amo il presidente uscente del Consiglio europeo Tusk.  Johnson, è sbottato via Twitter l’ex primo ministro polacco rivolgendosi direttamente all’interlocutore, si sta incamminando verso “uno stupido scaricabarile”, mentre in ballo c’è “l’avvenire dell’Europa e del Regno Unito così come la sicurezza e gli interessi dei nostri popoli”.

Parole a cui fanno eco quelle delle opposizioni britanniche, determinate a far valere la legge anti-no deal (o Benn Act) per imporre comunque al premier brexiteer la richiesta di un rinvio di tre mesi dell’uscita dall’Ue se entro il 19 ottobre non vi sarà accordo.

Rinvio che Johnson insiste a escludere oltre il 31 ottobre, con o senza deal, ma che potrebbe essere costretto a firmare da un tribunale.

A meno di dimettersi. Il suo occhio, del resto, è già rivolto verso le urne: un traguardo che punta a raggiungere – lo accusano gli oppositori, dal Labour alla leader independentista scozzese Nicola Sturgeon – anche a costo di “sabotare i negoziati”, esporre il Paese al rischio hard Brexit e “scaricare il fiasco su chiunque altro in modo pateticamente trasparente”.

I sondaggi, tuttavia, sembrano dare ragione ancora a Boris, che con il ministro Michael Gove ha sbandierato oggi stesso un rapporto aggiornato sui preparativi di un ipotetico no deal dicendosi “fiducioso”.

A dispetto di una sterlina che continua a calare, di una produttività ai minimi da 5 anni e delle stime dell’Institute for Fiscal Studies di un’esplosione del debito pubblico al livello più alto da mezzo secolo per far fronte ai costi d’un eventuale taglio netto dall’Ue: fino all’equivalente di 112 miliardi di euro, il 90% del Pil britannico.