Il granaio del mondo, l’Argentima e l’Fmi

Manifestanti con il cartello "Dio salvi l'Argentina".
Manifestanti con il cartello "Dio salvi l'Argentina". (Forbes.com)

Nell’Europa semidistrutta e affamata del secondo dopoguerra la chiamarono granaio del mondo. Incomparabili con le Liberty per numero e capacità, le navi che trasportavano le farine delle fertilissime pampas cominciarono tuttavia ad arrivare nei porti del vecchio mondo anche prima di quelle del Piano Marshall (ERP). In Italia innanzitutto: anche l’Argentina dei nostri emigranti si riconfermava America. Erano gli stessi anni in cui a Bretton Woods, all’altro capo del continente americano, veniva architettato il nuovo sistema finanziario in cui diventavano egemoni gli Stati Uniti.

Le lungimiranti insistenze di John Maynard Keynes fecero breccia nella visione espansionista del presidente Harry Truman, che dal New Deal rooseveltiano aveva appreso come non tutte le “ricchezze di una nazione” fossero da comprendersi in quelle prescritte da Adam Smith. Così che insieme alla garanzia aurea per il dollaro divenuto la moneta dominante, nacquero il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (WBG), destinati dal grande economista inglese a stabilizzare i mercati sempre esposti ai rischi delle loro componenti irrazionali e della speculazione.

A oggi, sono trascorsi abbondanti tre quarti di secolo, con innumerevoli vicissitudini sociali ed economiche. Al netto d’ogni retorica, però, quella argentina è ancora in termini assoluti una delle cinque agricolture più produttive e avanzate del globo. I numeri della borsa cerealicola di Chicago (per tonnellate prodotte e milioni di dollari ricavati) certificano l’immaginario popolare: le pianure umide del Cono Sud temperato potrebbero nutrire 500 milioni di persone, pari all’intera popolazione latino-americana, 8 volte quella dell’Italia.

Invece, di nuovo, il paese sudamericano che pure ha rinsaldato la sua democrazia, è piagato dalla peste peggiore, la fame: nella povertà cresciuta questi ultimi 2 anni fino a colpire il 30 per cento degli abitanti, non meno (probabilmente di più) di due milioni e mezzo di persone, tra cui centinaia di migliaia di bambini e adolescenti, non assumono le calorie quotidiane indispensabili. E specialmente nei più piccoli queste carenze lasciano segni irrimediabili sulla loro salute. Sono dati raccolti dalla Commissione episcopale cattolica e da organismi ufficiali. Più che attendibili, dunque.

Sulla drammaticità della crisi, del resto, sulla sua implacabile violenza, un fatto cancella qualsiasi possibile dubbio. E’ un atto politico per più motivi eccezionale: il Senato di Buenos Aires ha votato all’unanimità (61 a favore, nessuno contrario) e con carattere assoluto d’urgenza una legge che dichiara l’Emergenza Alimentare. Garantisce fino al 2022, vale a dire per i prossimi 3 anni a partire da ora, un forte finanziamento statale (minimo 50 per cento) alle mense popolari che negli ultimi mesi vanno moltiplicandosi da ogni parte e soprattutto nelle grandi periferie urbane.

Mentre all’interno del Congresso i senatori del governo e dell’opposizione votavano in un clima di reciproca ma contenuta ostilità, nelle strade tutt’attorno decine e decine di migliaia di persone manifestavano tumultuosamente contro il presidente Mauricio Macri. Una duplice, eloquente immagine delle tensioni che attraversano il paese intero e che con ogni probabilità non smobiliteranno neppure dopo il prossimo 27 ottobre, quale che sia il risultato delle elezioni presidenziali previste per quel giorno (i sondaggi accreditano unanimi un notevole vantaggio per l’opposizione: il ticket Alberto Fernandez-Cristina Fernandez).

Ciclicamente, dalla fine dell’ultima dittatura militare, quella dei desaparecidos che in sei anni (1976-82) quintuplicò il debito pubblico preesistente, oltre a dilaniare il tessuto culturale della società, il suo patto di convivenza, l’Argentina si ritrova affacciata sull’orrido della bancarotta. Una volta ancora, gli investimenti miliardari, quasi tutti nella finanza speculativa, fuggono precipitosamente; i risparmi dei cittadini comuni evaporano insieme ai loro progetti di vita. Non è un caso unico. In questa economia globalizzata, nessun paese di sviluppo intermedio riesce a crescere stabilmente, compatibilizzando imposte e servizi, profitti e salari.

Però scegliendo a priori di rottamare l’industria esistente e la sua insostituibile capacità di occupazione, i sussidi di stato e i controlli alle transazioni finanziarie ereditati dal precedente governo di Cristina Fernandez de Kirchner (pur farraginosi e talvolta torbidi), per favorire l’export agricolo, le opere pubbliche (in cui la famiglia Macri vanta lunga e proficua esperienza imprenditoriale) e un sistema bancario aperto ai quattro venti oltre che appeso a investimenti esteri rimasti nel suo wishful thinking, il Presidente Macri è andato pervicacemente diritto al disastro. Reso infine dirompente dallo smisurato ricorso al credito internazionale.

L’indebitamento raggiunto ne mostra il consuntivo e il meccanismo perverso che lo alimenta. All’inizio della Presidenza Macri, dicembre 2015, il debito costituiva il 53,3 per cento del Prodotto Interno Lordo (PIL); oggi è salito ben oltre il doppio: al 129 per cento (dati CEPAL). Per i quattro quinti è in valute forti (dollari, euro e sterline), con scadenze per la maggior parte a breve e medio termine, impossibili da onorare nell’attuale situazione. Il nuovo ministro dell’Economia, Hernan Lacunza, sta chiedendo quindi di protrarre i termini di pagamento per circa cento miliardi di dollari in titoli di vario tipo. Tecnicamente, è già un default, che spinge ulteriormente svalutazione e inflazione (quest’ultima calcolata per quest’anno al 60 per cento).

Il governo stesso ritiene falcidiata dalla crisi anche la solvibilità dell’enorme maggioranza degli individui. A tal punto da ordinare all’amministrazione fiscale la riduzione del 50 per cento dei ratei in scadenza per le imposte dovute sul reddito (quella che in Italia viene denominata IRPEF). Con ciò dimezzando quindi seccamente le prossime entrate dello stato, che affronta pertanto i prossimi mesi con probabili se non immancabili problemi di cassa. Nel tentativo disperato di evitare così un corto circuito di liquidità nelle attività produttive, con le conseguenze catastrofiche che comporterebbe.

Creditore numero uno, privilegiato per statuto, è comunque il Fondo Monetario. Nel senso che accada quel che accada va pagato immancabilmente e per primo, in quanto ente multinazionale a cui l’Argentina medesima partecipa insieme ad altri 188 paesi. Sebbene a comandarvi siano in pochi e gli unici ad avere potere di veto gli Stati Uniti, titolari della quota di maggioranza relativa. I quali nel tempo ne hanno trasformato ragion d’essere e missione: da banca a proprietà diffusa che doveva favorire gli equilibri monetari e la stabilità dell’economia globali, a strumento di fede assoluta nel libero mercato e nella sua naturale efficienza.

Austerità, vale a dire tagli progressivi alla spesa pubblica (sanità e istruzione in primo luogo), e privatizzazioni sono l’immancabile sostanza della ricetta che somministra ogni qual volta interviene attraverso i suoi funzionari nel commissariamento di fatto d’una economia in crisi. Oggi -va rilevato-, con minor rigore dogmatico del passato. Poiché è impossibile ignorare che mezzo mondo (segnatamente quello occidentale) vive in deficit di bilancio e con debiti pubblici alle stelle, senza che l’FMI (né nessun altro) riesca a togliere il ragno da questo epocale black-hole. Considerazione che nondimeno non è bastata al presidente Macri per ottenere il pagamento della promessa quota di 5,4 miliardi di dollari dei 57 concessi stand-by, cioè a rate, un anno fa.

L’FMI che aveva forzato il proprio stesso statuto permettendo all’Argentina di Mauricio Macri di indebitarsi spropositatamente, ora che nessuno riesce più a prevedere la sua rielezione compie una brusca sterzata per rientrare nella regola e salvare il salvabile. David Lipton, direttore provvisorio in attesa della bulgara Kristalina Giorgieva, scelta per sostituire Christine Lagarde (a sua volta destinata a sostituire Mario Draghi alla BCE), gli ha spiegato che il credito finanziario residuo resta a disposizione del prossimo Presidente eletto. A un mese dal voto, quest’abbandono (che presume anche quello di Donald Trump, a sua volta preso da strette urgenze personali), appare un colpo politico mortale.

Christine Lagarde non segue infatti la fede ultraortodossa di Ann Krueger, che nel 2001 la precedette ai vertici dell’FMI per accusarla poi nei mesi scorsi di eccessiva condiscendenza verso il governo di Buenos Aires. Ma neppure possiede l’audacia calcolata e tuttavia generosa di George Marshall, men che meno la genialità di John Maynard Keynes. Difficile capire quindi perchè abbia passivamente favorito l’indebitamento monstre dell’Argentina. Salvo che dando credito alla voce diffusa tanto nei corridoi di Pennsylvania Avenue quanto alla Casa Rosada, secondo cui avrebbe ceduto alle pressioni del presidente degli Stati Uniti, vecchio socio in affari immobiliari della famiglia Macri.

Entrambi non dimenticando certo che l’Argentina è un paese politicamente difficile, dunque a rischio; non privo però di importanti risorse naturali. E che comunque al Fondo ha restituito fino all’ultimo centesimo già con i Kirchner e con Macri ha pagato anche gli avvoltoi dei fondi più speculativi (grazie a un giudice di New York). Nella campagna elettorale del 2003, la privatizzazione del servizio di distribuzione dell’acqua potabile e la voce che se fosse stato rieletto l’ex presidente Carlos Menem avrebbe cambiato il regime di proprietà dei suoli, assimilandola a quella statunitense che l’estende anche a quanto c’è sotto la superficie, fu sufficiente per far giungere in massa le più grandi multinazionali del settore, dalla Bridge Water a Danone, Societè Lyonnaise des Eaux, Coca Cola, gruppo Suez… L’FMI ne ha finanziate più di una.

Livio Zanotti

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