Il neoliberalismo alla verifica argentina

Persone protestando in strada sollevando uno striscione con la scritta "Bancaria"
Proteste in Argentina.

All’ora della verità mancano ormai solo una manciata di settimane (le elezioni presidenziali sono fissate per fine ottobre), ma già domenica prossima gli argentini andranno alle urne per le “interne” dei diversi partiti e coalizioni, come previsto dalla legge. Di fatto, però, tutte le candidature sono state anticipate da tempo e la consultazione sarà essenzialmente un macro-sondaggio, in cui tutti gli indicatori danno favorito il ticket del peronismo oppositore con Alberto Fernandez e l’ex presidentessa Cristina Fernandez (45/46%) su quello governativo dell’attuale capo di stato Mauricio Macri, affiancato da Miguel Pichetto, un conservatore ultra-cattolico profugo del giustizialismo. Gli altri candidati seguono fortemente distanziati.

L’attuale maggioranza appare prigioniera di un fallimento economico clamoroso che nondimeno non rinuncia a giustificare come eredità del precedente governo kirchnerista (permanentemente demonizzato) e inevitabile propedeutica all’affermazione di un modello modernizzatore in chiave liberista, interamente affidato all’innata saggezza del mercato. Una sorta di rito espiatorio (sulla cui pira vengono sacrificati industria e occupazione) per assicurare una futura resurrezione (affidata all’export agricolo, alla finanza e all’edilizia infrastrutturale). Allo scadere dei quattro anni dell’intero ciclo di governo, con i fondamentali economici tutti in profondo negativo, la formula suona usurata, non più capace di trovare ascolto nella gran parte della pubblica opinione.

Macri non ha del resto la personalità del leader carismatico, non fa né promette magie. Si mostra convinto, oggi come ieri, che disintermediazione della politica (il contrario di una democrazia partecipata) e de-burocratizzazione del processo economico (falcidiare le regole) sono condizioni necessarie e sufficienti per rilanciare la crescita. E’ un’equazione in cui la mobilità degli equilibri sociali e il patto culturale alla base della convivenza nazionale sono variabili indipendenti, cosi come l’elasticità del mercato interno. In un paese di immigrati che per un secolo hanno affidato le loro speranze di progresso all’istruzione (“Mio figlio va all’università…”), la visione dell’ordine e della modernità del Presidente non va oltre il perimetro degli attuali ceti medio-alti.

Ma neppure il mondo della grande impresa è per intero dalla sua parte. Preoccupato dell’enorme indebitamento e della fragilità del sistema paese, troppo squilibrato per la dipendenza dall’estero. Tanto che perfino il blindaggio fornito dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) con il prestito più gigantesco mai fornito nella sua storia (56mila milioni di dollari), sembra sufficiente a garantire la stabilità dei cambi, un punto essenziale nella campagna elettorale del governo. La guerriglia dei dazi mercantili tra Stati Uniti e Cina è infatti sufficiente in questi giorni a far lievitare il livello della moneta statunitense, la cui ultima impennata lo ha portato a oltre 47 pesos per un dollaro (una parità ritenuta comunque artificiosa: il dollaro “a futuro” prevede un suo aumento del 25% in dicembre, con l’inizio della nuova Presidenza) . Con il rischio-paese giunto a 902 punti e i tassi sui buoni del Tesoro in continua ascesa (con relativo aggravio degli interessi sul debito).

Pochi altri numeri tratteggiano il bilancio dell’esperienza macrista. Negli ultimi 4 anni hanno chiuso i battenti 20mila imprese, in massima parte medie e piccole. Divorate dalla permanente inflazione a due cifre e dai permessi d’importazione che hanno sbriciolato interi settori (per esempio, il tessile). E’aumentato il numero delle partite IVA (in Argentina classificate come monotributisti), poiché una parte degli oltre centomila lavoratori che hanno perduto l’impiego hanno tentato la via di un micro-imprendimento, per lo più nel commercio e nell’artigianato. La caduta ininterrotta della produzione industriale somma attualmente a 14 mesi. L’indebitamento del solo stato centrale somma 335 mila milioni di dollari, l’intera ricchezza prodotta dall’Argentina in un anno. Nel breve tempo che manca ormai alle elezioni questi numeri non potranno essere modificati.

Livio Zanotti

Ildiavolononmuoremai.it

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