La restaurazione in Sudamerica e le sue contraddizioni

Un soldato armato dei reparti speciali pattuglia una strada. Una donna seduta fuori casa con un bambino.
Un soldato armato dei reparti speciali brasiliane pattuglia una strada. Una donna seduta fuori casa con un bambino.

Una sostanziale riduzione delle regole nel mercato economico e del lavoro, una sostanziale e parallela restrizione delle libertà nelle scelte etiche individuali: appare evidente una logica comune negli indirizzi politici dei maggiori paesi del subcontinente americano, tutti governati da una destra più o meno radicale. E configura un’unica strategia di aperta restaurazione autoritaria. La contraddizione è infatti solo apparente. In concreto, la promozione dell’anarchia economica da una parte e la repressione delle istanze liberali dall’altra sommano una sottrazione netta e profonda dei diritti delle persone. Ne esce ferita quella stessa democrazia liberale suggerita 150 anni fa da Montesquieu con la separazione dei tre poteri fondamentali dello stato e il riconoscimento dell’autonomia culturale, dunque anche morale e religiosa del cittadino.

Nella sanguinosa e diffusa violenza che colpisce senza tregua il Brasile, ogni giorno vengono denunciati mille300 casi di violenza sessuale, soprattutto contro donne e minori (le statistiche ne presumono in realtà almeno il doppio, tenendo conto che carenze culturali e subordinazione psicologica inducono gran parte delle vittime a tacere), forti gruppi dogmatici evangelici e cattolici a cui si sono aggregati anche settori dell’integralismo islamico, stanno promovendo una campagna per l’abolizione dell’aborto, attualmente regolato da una legge che lo consente soltanto in tre casi estremi. Sono la base più attiva dell’ultra-conservatore partito social-liberale di Jair Bolsonaro, da decenni attivi nel paese, cresciuti oltre ogni previsione grazie a un intenso proselitismo porta a porta e agli stretti collegamenti con gruppi fondamentalisti degli Stati Uniti.

Casualmente, l’uomo considerato l’ispiratore ideologico del presidente brasiliano vive da una quindicina d’anni a Richmond, in Virginia, e ha rapporti con ambienti che a suo tempo favorirono la formazione di quella che si autodefinì come moral majority, storicamente legata all’estrema destra del partito Repubblicano. Si chiama Olavo de Carvalho e ha 72 anni. Dopo un’inquieta vita spirituale e politica che l’ha portato dallo studio di Aristotele all’adesione al partito comunista brasiliano, poi attraversando l’anarco-individualismo al culto dell’astrologia e all’affiliazione a una comunità islamica sufista, oggi dispensa lezioni di filosofia su Internet. Senza mai abbandonare un’affezione per le teorie cospirative, che nel 2008 l’hanno spinto fino ad affermare che dietro l’allora presidente Barak Obama c’erano Al Qaeda, Hamas, l’iraniano Ahmedjneyad, Fidel Castro, etc. etc.

In Colombia non cessa il sistematico assassinio politico di centinaia di oppositori del governo, ex guerriglieri delle disciolte Fuerzas Armadas Revolucionaria (FARC), sindacalisti, operatori sociali. Ma il presidente Ivan Duque, che pure ha dovuto ammettere l’eccidio in corso, mostra invece ben maggiore preoccupazione per neutralizzare la rivendicazione dei diritti umani. In sostanza per facilitare l’amnistia e la liberazione di quanti in Sudamerica sono in carcere o sotto processo per averli violati gravemente, quasi tutti militari e funzionari di polizia delle dittature che hanno sequestrato, torturato, ucciso e fatto scomparire migliaia e migliaia di persone. E’ avvenuto soltanto qualche giorno fa, alla 49° Assemblea dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), a Medellin, in cui Duque era il padrone di casa e di fatto il leader d’un cartello del perdono.

All’ordine del giorno il rinnovo dell’esecutivo e di alcune procedure del Sistema Inter-Americano dei Diritti Umani (SIDH), che nel rispetto degli impegni sottoscritti ha imposto negli ultimi anni agli stati aderenti di processare gli incriminati di massacri e sequestri di persona; l’annullamento di amnistie e indebiti proscioglimenti di processati per reati infamanti e gravemente lesivi dei diritti umani. Sono così rimasti tra gli altri a scontare le pene a cui li hanno condannati i tribunali ordinari dei rispettivi paesi l’ex presidente del Perù, Alberto Fujimori, colpevole di stragi e malversazioni, torturatori al servizio del regime cileno di Augusto Pinochet, oltre a numerosi esponenti delle forze armate argentine. Mentre hanno potuto recuperare la libertà prigionieri politici in Nicaragua e in Messico.

Per la minima ma decisiva differenza di un solo voto, il blocco costituito da Argentina, Brasile, Cile, Colombia e Paraguay ha fallito nell’intento di ottenere la guida degli organismi del SIDH e rovesciare i criteri che l’hanno guidato finora. Il confronto è però destinato a proseguire. Le fratture provocate nelle società latinoamericane dai colpi di stato militari e dalle resistenze armate tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, con conflitti sanguinosi che in Colombia si protraggono ancora oggi, oscurano l’orizzonte di una riconciliazione a cui pur molti da ogni parte politica dichiarano di aspirare. E’ la necessaria premessa alle politiche di stato indispensabili per riavviare i processi di sviluppo. Non se ne intravvedono tuttavia neppure le condizioni minime. E ben pochi sono i governi e le istituzioni che possono dire di aver compiuto gli sforzi necessari per avvicinarle.

Livio Zanotti

ildiavolononmuoremai.it

 

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