L’ultima sfida di Carola: “Disperati, dobbiamo entrare”

La capitana della Sea Watch, Carola Rackete sul ponte di comando della nave.
La capitana della Sea Watch, Carola Rackete sul ponte di comando della nave. EPA/TILL M. EGEN

LAMPEDUSA (AGRIGENTO). – Alle tre del pomeriggio, la Sea Watch è un pezzo di ferro arroventato lungo cinquanta metri fermo in mezzo ad un mare immobile e trasparente. Joseph, Ibrahim e gli altri 40 disperati, ultime vittime di uno scontro politico giocato a Roma e a Bruxelles sempre e solo sulla loro pelle, sono stesi per terra tra coperte lerce e giubbotti salvagente usati come cuscini.

Sotto il tendone che tenta di proteggerli dal caldo c’è una scacchiera aperta e una mappa di quell’Europa che non li vuole. Carola Rackete, la comandante che ha sfidato Salvini, li guarda un’ultima volta e poi parla tutto d’un fiato. “Abbiamo provato tutto, abbiamo chiesto ufficialmente un porto sicuro all’Italia, lo abbiamo fatto tre volte. Ma abbiamo chiesto anche all’Olanda. E alla Francia. Nessuno ci ha risposto. Ora basta, queste persone sono disperate, dobbiamo entrare in porto”.

L’odissea però non è finita. Non ancora, almeno. La nave è ferma a meno di mezzo miglio dall’isola, dalla plancia di comando si vedono le barche piene di turisti in costume che rientrano in porto. “Guardali, sono felici. Perché questi uomini e queste donne non hanno diritto di esserlo anche loro?” dice Soeren Moje, un ingegnere navale tedesco di 32 anni che da due mesi non mette piede a terra. “Ma questo non è un problema – sorride – sono un marinaio. E per un marinaio è molto chiaro quello che bisogna fare in mare: salvare le persone”.

I 33 uomini, le 6 donne e i 3 minori ne hanno visti, di orrori. C’è chi ha dovuto seppellire un cadavere per rendere più presentabile il centro dove era detenuto e chi ha dovuto lavorare gratis per mesi, fare il servo per comprarsi la libertà. Chi, ancora, ha visto un familiare morirgli davanti, ucciso da un colpo di kalashnikov sparato a bruciapelo dai carcerieri libici.

“Ho passato un anno in Libia – dice Joseph, 26 anni e un filo di voce – di cui 3 mesi in prigione. Mi picchiavano spesso, ma non so perché”. Ma ce l’hai un sogno Joseph? “Si, voglio andare in Europa, in un paese qualunque, dove ci sia pace”.

E tu, Henry, dove vuoi andare? “Sono un migrante – risponde il giovane guineano – non posso scegliere dove andare. Ma mi va bene qualsiasi posto lontano dalla Libia”.

Carola sa che questa situazione non può durare. Lo sa da due settimane. Stamattina ha tentato di forzare nuovamente il blocco. Ma l’hanno fermata. Non si arrenderà. E anzi è molto probabile che, con il sostegno dei cinque parlamentari italiani rimasti a bordo, tenti un nuovo affondo. Quando non lo dice. Presto, comunque.

“Non si gioca con la vita delle persone – ripete – la Guardia di Finanza ci ha promesso una soluzione rapida ma se così non fosse noi dobbiamo entrare. La situazione a bordo è peggiorata, qualcuno ha già detto di volersi buttare in mare. Finora abbiamo aspettato che il Governo si prendesse le sue responsabilità, ma non lo ha fatto. E quindi tocca a noi”.

Nelle scelte Carola non è sola. E sono soprattutto donne quelle che, con lei, decidono: c’è Valeria, il medico di bordo, che non la lascia un attimo; c’è Giorgia Linardi, che ci mette la faccia davanti al mondo; e c’è Heidi Sadik, la mediatrice culturale. E’ lei che parla con i ragazzi ed è lei la prima a capire che la situazione è esplosiva.

“Ci sono persone molto vulnerabili, hanno vissuto orrori in Libia e hanno bisogno di sbarcare al più presto. Ma tu lo vedi come stanno vivendo, non si può, è un’ingiustizia di cui i politici sono responsabili”.

E’ vero, ha ragione Heidi, è un’ingiustizia. Vedere esseri umani abbandonati su un ponte di una nave da due settimane è qualcosa che un paese civile non dovrebbe consentire, a prescindere da qualsiasi valutazione politica. In 42, hanno 2 bagni a disposizione – il terzo è ormai fuori uso – e due docce all’aperto, gli stessi vestiti addosso da due settimane, ma tra loro, tra i migranti, tutte queste parole, le dispute politiche, le polemiche e le ripicche tra Stati restano solo un brusio.

Loro guardano dalla murata della nave Lampedusa e continuano a chiedersi perché, perché tenerli lì, in quel pezzo di ferro arroventato. “Ma quanto ci vuole a farci scendere, quanto ancora?”. Uno di loro ha in mano un libro di William Tapply, “Dérive Sanglante”, la deriva sanguinosa. Vaglielo a spiegare, che a mezzo miglio da Lampedusa, su un pezzo di ferro arroventato, sta andando alla deriva la dignità dell’Europa.

(dell’inviato Matteo Guidelli/ANSA)