Bannon disse a Salvini e Di Maio: “Qui serve un premier di facciata”

Steve Bannon, l'ex stratega di Donald Trump, in una foto d'archivio.
Steve Bannon, l'ex stratega di Donald Trump, in una foto d'archivio.

WASHINGTON. – “Qui serve un premier di facciata”. E’ la primavera del 2018 e Steve Bannon, volato in Italia dopo le elezioni, si rivolge “all’amico Matteo Salvini” e a Luigi Di Maio, spronandoli a mettersi d’accordo per un’alleanza tra Lega e Movimento 5 Stelle e sconsigliando a entrambe di puntare all’incarico di presidente del consiglio. “Detto fatto! Bannon aveva realizzato la perfetta fusione dell’estrema destra con l’estrema sinistra”.

A raccontare il contributo dato dall’ex stratega di Donald Trump nelle trattative per formare un governo in Italia dopo il voto del marzo dello scorso anno è il giornalista americano Michael Wolff che, dopo aver svelato al mondo il caos della Casa Bianca nel best seller ‘Fuoco e furia”, esce col nuovo libro ‘Assedio. Fuoco su Trump”, in Italia edito dalla Rizzoli.

Wolff ripercorre il ruolo svolto da Bannon per la nascita di un fronte populista in Europa e parla del “clamoroso successo” ottenuto in Italia, “operando dietro le quinte” e promuovendo la coalizione giallo-verde “tra nazionalisti e populisti”. “Usciti i risultati elettorali da cui come prevedibile non era emersa nessuna maggioranza – si legge – Bannon prese il primo aereo per la Penisola dove contribuì a negoziare un accordo”.

Ma l’Italia – nota Wolff – come l’Ungheria di Viktor Orban “non erano mai stati dei Paesi trainanti in Europa”: per il progetto di Bannon serviva “un Paese guida, la Francia”, dove cominciò a collaborare con Marine Le Pen. Ma ancora una volta Wolff, nelle 400 pagine del nuovo libro, si concentra soprattutto sulla controversa figura di Trump.

L’assedio al tycoon non finirà mai, questo sembra essere il destino della sua presidenza, su cui però c’è una minaccia che grava più di tante altre: il fattore Melania. Se la first lady dovesse lasciare il tycoon – disse una volta ancora Bannon – sarebbe la fine dell’avventura politica di The Donald. Altro che le indagini sul Russiagate, lo spauracchio dell’impeachment o le tante vicissitudini che ogni giorno agitano forse l’amministrazione più turbolenta della storia Usa, le cui sorti sono legate a personaggi come Kim Jong un, Nancy Pelosi, Mohamed bin Salman, Vladimir Putin, Xi Jinping.

Ma stando a decine di testimonianze sono proprio i rapporti con la moglie e con il figlio tredicenne Barron il pericolo più grande. “Io sono come Kennedy”, rispondeva ridendo il tycoon quando nel 2016 in tanti lo mettevano in guardia dai rischi del matrimonio con l’ex modella slovena, “poco più che una finzione”.

Lei che si è trasferita con riluttanza a Washington, non dorme col marito e soggiorna quasi sempre in una casa in Maryland con i genitori. A lanciare l’allarme furono soprattutto l’amico di sempre di Trump Tom Barrack e la figlia prediletta Ivanka, che come i suoi fratelli snobba Melania e il fratellastro Barron, considerati “la famiglia ‘non Trump’ nella famiglia Trump”.

E’ sempre Bannon a raccontare come ogni volta che il presidente sente citare la first lady chiede: “Perché, lei c’entra qualcosa?”. Senza contare la furia del tycoon quando scopre la moglie parlare in sloveno col figlio, con tanto di urla e di porte sbattute. Ma proprio il rapporto con Barron è un altro punto debole di Trump, che lo ignora e cerca in tutti i modi di non incrociarlo. Gli darebbe anche fastidio che a 13 anni stia diventando alto come lui: “Ma non c’è un modo per bloccargli la crescita?”.

(di Ugo Caltagirone/ANSA)