Sudan, l’esercito sgombera nel sangue sit-in di protesta

Sudan: Manifestanti dell'opposizione Transitional Military Council (TMC) durante la manifestazione di protesta..
Sudan: Manifestanti dell'opposizione Transitional Military Council (TMC) durante la manifestazione di protesta.. EPA/MARWAN ALI

ROMA. – “Del nostro sit-in non resta più niente, solo i corpi dei nostri martiri che non possiamo evacuare”. E’ finito in un bagno di sangue, secondo gli attivisti, il braccio di ferro tra la giunta militare, al potere in Sudan dalla cacciata lo scorso aprile del presidente Omar al Bashir, e gli attivisti che chiedono una rapida transizione a un governo civile. Le forze di sicurezza hanno attaccato il presidio della protesta, appena fuori il quartier generale dell’esercito a Khartoum, uccidendo almeno 30 persone e ferendone oltre cento.

La giunta militare nega di aver condotto un attacco mirato al sit-in, sorto prima della cacciata di Bashir e poi rimasto in piedi per fare pressione sui militari: il portavoce del Consiglio militare, Shams al Deen al Kabashi, ha dichiarato in tv che le forze di sicurezza hanno solo preso di mira una zona limitrofa al campo, dove si ritiene avvengano attività criminali, ma ha ammesso l’intenzione di rimuovere tutti i blocchi stradali della capitale.

Gli oppositori denunciano invece l’uso di pallottole vere, lacrimogeni e manganelli contro gli attivisti e, come prima reazione, hanno sospeso i colloqui per la transizione. L’alleanza per la Dichiarazione della libertà e del cambiamento, la principale organizzazione che rappresenta i dimostranti nei negoziati, ha inoltre lanciato un appello per uno sciopero generale e la disobbedienza civile, e perché la comunità internazionale “non riconosca il colpo di Stato”.

Le tensioni tra la giunta militare e gli oppositori che in aprile contribuirono alla caduta di Bashir – al potere per 30 anni e ricercato dal 2009 dalla Corte penale internazionale per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, soprattutto per le atrocità commesse in Darfur – si erano acuite nelle ultime settimane.

Il 15 maggio le parti avevano raggiunto un’intesa che fissava a 3 anni il periodo di transizione verso un Sudan pienamente democratico e che concedeva all’alleanza delle opposizioni 300 deputati nel “consiglio legislativo”, una sorta di parlamento transitorio. Restava però da sciogliere il nodo del cosiddetto “consiglio sovrano”, il vero organo esecutivo di cui sia i militari che i civili rivendicano la maggioranza dei suoi 11 membri.

L’Onu ha condannato le violenze, così come gli Stati Uniti che parlano di un “attacco brutale che ricorda i peggiori crimini del regime” di Bashir. Appelli alla moderazione sono arrivati anche dall’Unione africana e dell’Unione europea, preoccupati dallo stallo e dall’eventuale fallimento del processo politico in corso. Anche l’Egitto che appena ieri ha ricevuto il capo del Consiglio militare al potere, Abdel Fattah al-Burhane, sostenuto anche da Emirati e Arabia Saudita, ha lanciato “un appello alla calma e a tornare ai negoziati”.

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