Antonio Di Pietro: “Tangentopoli non è mai finita”

Una foto d'archivio del sostituto procuratore Antonio Di Pietro, durante un'udienza in Tribunale.
Una foto d'archivio di Antonio Di Pietro, sostituto procuratore, durante un'udienza in Tribunale.

ROMA. – “Una nuova tangentopoli? Tangentopoli non è mai finita”. Per Antonio Di Pietro, già magistrato simbolo del pool Mani pulite che a partire dal 1992 portò alla luce la prima tangentopoli, la maxi-inchiesta della Procura di Milano segnala la pervicacia del fenomeno corruzione in Italia.

“Il fatto che la corruzione riemerga e si scoprano i reati vuol dire che le forze di contrasto reagiscono. Mani pulite ebbe una rilevanza mediatica altissima perché per la prima volta veniva aperto l’armadio del malaffare. Ma quell’armadio viene sempre rifocillato”, dice l’ex pm. – Tangentopoli, però, diede un colpo mortale alla prima Repubblica.

Oggi come valuta la classe politica? “Che ci sia stato un ricambio è vero ed era necessario. Però, sia chiaro: anche prima c’erano politici onesti, non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. Né c’entra l’appartenenza a questo o quel partito: la distinzione è sempre tra le persone”.

– Ma vede similitudini tra la tangentopoli di allora e oggi?

“Confrontando gli esiti dell’inchiesta attuale con quella che conducemmo 25-27 anni fa mi sembra di poter dire che il sistema è sempre quello: semmai si è persino abbassato il livello qualitativo. Non voglio dire che ci fosse una nobiltà nella mazzetta di allora. Ma oggi mi sembra che ci si attacchi a qualsiasi cosa per racimolare denaro o favori. Torna attuale il termine che inventai a suo tempo, ‘dazione ambientale’: non siamo più di fronte né a una corruzione né a una concussione, la tangente si dà perché fa parte del sistema. E c’è un degrado ancora peggiore: il sistema delle tangenti si è ingegnerizzato. Oggi la mazzetta si paga anche attraverso finte consulenze mensili, magari con lo scarico in dichiarazione dei redditi”.

– La corruzione si batte con le leggi o il tema è culturale?

“E’ un problema culturale per definizione. La legge fissa la pena una volta che il reato c’è stato. Ma il paese migliore è quello in cui il reato non viene commesso, non quello in cui viene scoperto. Serve impegno per far capire ai cittadini che non conviene commettere un reato. E serve certezza della pena. Nel nostro sistema, invece, prevale la convinzione che tanto la si fa franca. Ultimamente sento ripetere l’adagio ‘combatteremo l’evasione fiscale’, poi arriva un nuovo provvedimento per la pace fiscale: è una contraddizione che porta a pensare che tanto c’è il modo per farla franca”.

– Cosa pensa degli ultimi provvedimenti anticorruzione?

“Le leggi anticorruzione è meglio farle. Anche l’ultima, la spazzacorrotti, è insufficiente, ma non è una buona ragione per non farla. E il daspo ai corrotti che così non possono più tornare nella pubblica amministrazione è un fatto positivo. Ma non basta. E’ opportuno che si fermi la prescrizione con il rinvio a giudizio. Contestualmente, però, vorrei un sistema processuale che permettesse di avere risposte in tempi brevi: mesi, non anni. Per questo servono due interventi. Il primo è una riforma del processo penale: attualmente è un ibrido tra un sistema accusatorio e uno inquisitorio e si allungano i tempi, si fanno più volte le stesse cose, ci sono tre gradi di giudizio quando in altri paesi ce ne sono due, bisogna rifare in fase dibattimentale ciò che si è fatto in istruttoria. Il secondo è una forte depenalizzazione. E poi va aumentato il personale”.

(di Eva Bosco/ANSA)