Teatro: il “vero” Shakespeare forse di origini siciliane

Un ragazzo di spalle guarda un murale con l'effige di William Shakespeare (1564-1616) creata dall'artista James Cochran.
Un ragazzo di spalle guarda un murale con l'effige di William Shakespeare (1564-1616) creata dall'artista James Cochran. EPA/FACUNDO ARRIZABALAGA

PALERMO. – C’è un mistero che aleggia intorno a quello che viene indicato forse come il più grande drammaturgo di tutti i tempi. Chi era veramente l’autore delle straordinarie opere di William Shakespeare? L’attore di Stratford, venerato dagli inglesi, ma semi-analfabeta, di cui restano un testamento che nulla dice delle opere, e alcuni contratti per prestare soldi a usura. Oppure quella lunga lista di possibili alter ego che da 400 anni viene proposta dai quattro angoli della terra: Francis Bacon, il terzo conte di Southampton, persino lo stesso Marlowe?

Negli ultimi anni si è fatta strada l’ipotesi che il “vero” Shakespeare sia in realtà uno studioso di origini siciliane: John Florio, figlio di Michelangelo, un erudito in esilio, scappato all’inquisizione da Messina e nascosto a Venezia e a Verona, prima di approdare a Londra. Lì nasce John, sfrutta l’immensa cultura classica del padre e viene accolto dal conte di Southampton insieme a un giovane attore, Will di Strafford. Saranno per molti anni protetti del potente aristocratico, abiteranno lo stesso castello e la somma è presto fatta.

L’unico possibile vero autore delle meravigliose opere è John Florio. Concepire quelle opere senza una cultura classica formidabile è impossibile. Come faceva l’attore a conoscere alla perfezione la toponomastica di Messina (Molto rumore per nulla), Venezia (Il mercante) o Verona (Romeo e Giulietta) o Padova (La bisbetica domata). I dubbi si sono moltiplicati a cominciare dai giudizi di Mark Twain, e poi Charles Dickens, Harry James e persino Freud, comprovati dagli studi più recenti di molti ricercatori italiani e britannici: Saul Gerevini, Corrado Panzieri e Giulia Harding.

Il regista Stefano Reali sta preparando una fiction, prodotta in Spagna, che narra non solo i rapporti tra Florio e Shakespeare ma anche l’incontro tra Miguel de Cervantes e John Florio, avvenuto a Messina mentre il genio spagnolo era ricoverato in ospedale dopo il ferimento nella battaglia di Lepanto. Anche Reali condivide la tesi di tre anglisti.

“Non esiste una smoking gun – dice il regista – ma una serie stringente di indizi che hanno sostanza di prova. Florio conosce la novellistica rinascimentale italiana, il greco e il latino che l’attore di Stratford sconosceva. Poi il giallo si infittisce. Conosciamo il testamento olografo di Florio che lascia l’utilizzo dei suoi manoscritti al conte di Pembroke, la cui famiglia ha negato fino ad oggi l’accesso ai manoscritti. Il professor Panzieri ha chiesto il permesso a Tony Blair e alla regina Elisabetta II, ma senza successo”.

Il motivo è presto detto: “Il brand Shakespeare – spiega il regista – per gli inglesi vale alcuni miliardi di sterline ed è impensabile che vi rinuncino. Persino gli scrittori elisabettiani, contemporanei di Shakespeare fanno riferimento alla possibile frode, ma nessuno poteva sospettare che era così facile fare soldi con il teatro. Fu Giordano Bruno a consigliare Florio e Shakespeare di costruire un teatro più capiente e smontabile, il Globe. E quando il successo crebbe a dismisura, dopo la morte dell’autore e dell’attore, i Pembroke, pubblicarono il first-folio, capirono che potevano dare in affitto le opere in loro possesso ai kingsman e nacquero così le royalty, il diritto d’autore”.

Quello che è sicuro è che Florio è l’autore del dizionario inglese-italiano, che regala al vocabolario inglese più di 200.000 nuovi vocaboli, e che la voce “Florio” dell’enciclopedia britannica nel 1880 constava di 25 pagine, 10 anni dopo solo due. Il muro dell’establishment stratfordiano continua a difendersi.

(di Franco Nuccio/ANSA)