Niente terzo voto, la Brexit della May affonda ai Comuni

Theresa May seduta sui banchi del Parlamento inglese Westminster, con i suoi ministri.
Theresa May sui banchi del Parlamento inglese Westminster. (ANSA)

LONDRA. – Colpito e affondato. L’accordo di Theresa May sulla Brexit ha ricevuto il colpo forse finale dal guastatore più inatteso: il pittoresco speaker dei Comuni, John Bercow, che con un solenne statement a sorpresa ha deciso di vietare per ragioni procedurali il terzo voto di ratifica che la premier britannica avrebbe avuto in animo di proporre all’aula a giorni, assestando uno sgambetto fatale alla strategia da ultima spiaggia del governo Conservatore e della sua traballante timoniera. La quale comunque fa sapere di non volersi dimettere.

Bercow – Tory di provenienza, ma figura atipica e sopra le righe nel ruolo indipendente di garanzia di presidente della Camera che ricopre da quasi 10 anni – ha fatto saltare il tavolo, lasciando sotto shock Downing Street e l’intero l’esecutivo. Con un verdetto rispettoso delle forme parlamentari, ma punteggiato da frecciate irritate per il comportamento recente del gabinetto May e da sassolini tolti dalla scarpa, ha posto il veto a una mozione destinata a riesumare all’esame dell’assemblea la medesima intesa bocciata in una prima forma a gennaio con il massimo scarto mai rimediato da un governo di Sua Maestà (meno 230) e in una versione rivisitata martedì scorso con un divario di 149 voti.

“Il governo non può legittimamente – ha tagliato corto lo speaker con il caratteristico piglio e cipiglio – sottoporre di nuovo alla Camera la stessa proposizione, o sostanzialmente la stessa, rigettata pesantemente una settimana fa per 149 voti”. Bercow ha puntualizzato di aver consentito il secondo voto di ratifica – dopo il flop di gennaio – considerando non formali le modifiche apportate alla mozione col richiamo a nuovi documenti sulla base delle intese in extremis raggiunte dalla premier con l’Ue sul contestato meccanismo del backstop irlandese.

Ma ha chiarito di non essere disposto a farlo ancora alle condizioni indicate finora dalla May, la cui intenzione sarebbe stata quella di sfidare di nuovo la sorte, sulla scia del pressing avviato in questi giorni (con esiti al momento solo parziali) per cercare di riportare in extremis all’ovile, fra minacce e lusinghe, i falchi Tory ribelli e gli alleati unionisti nordirlandesi del Dup. E poi presentarsi al Consiglio Europeo del 20 e 21 per chiedere solo un “breve rinvio tecnico” della Brexit dalla data prefissata del 29 marzo al 30 giugno.

Un’operazione su cui il responso di John Bercow sembra poter mettere la pietra tombale, salvo giochi di prestigio. Piccolo di statura, ma tonante nella voce, lo speaker si è appellato puntigliosamente a una prassi normativa in vigore a Westminster fin “dal 1604”, sancita poi nero su bianco nella bibbia regolamentare vergata nel 1844 dal funzionario Thomas Erksine May (cognome quanto mai beffardo per la premier attuale): un testo rispolverato peraltro l’ultima volta nel 1943.

La sua alzata d’ingegno ha ricevuto il plauso delle opposizioni e anche da alcuni Tory dissidenti brexiteer che gli hanno però chiesto di escludere analogamente un ulteriore voto su emendamenti a loro volta già bocciati come quello in favore di un secondo referendum. Mentre hanno suscitato una reazione fra lo sbalordito e il furioso a Downing Street. Ufficialmente il portavoce della premier si è limitato a evidenziare come lo speaker non abbia avuto nemmeno la premura di avvertire.

Ma la ministra dei Rapporti con il Parlamento (Leader of the House), Andrea Leadsom, non le ha mandate a dire, rinfacciando in aula a Bercow di non essere “rispettoso”, né “cortese”, e aggiungendo di non avere “fiducia in lui”. Non si tratta del resto solo di buone maniere. Il solicitor general del governo, Robert Buckland, sorta di avvocato dello Stato britannico, ha denunciato in punto di diritto “l’interventismo” del presidente della Camera come l’innesco “d’una grave crisi costituzionale”.

Di certo c’è che il caos della Brexit rischia di farsi ancor più inestricabile. Con l’Ue pronta adesso a concedere tempo fino “all’ultim’ora” del 29 marzo, ma impotente dinanzi al groviglio politico e istituzionale d’oltremanica. Un ginepraio da cui potrebbe saltar fuori a questo punto la richiesta di un rinvio lungo dell’uscita, ma anche una crisi di governo (a dispetto delle smentite), un referendum bis, la revoca dell’articolo 50 o chissà cos’altro. E senza poter escludere la temuta ombra incombente d’un no deal.

(di Alessandro Logroscino/ANSA)