Brexit no deal fa paura, venti di rivolta in casa Tory

Manifestazione a Londra a favore di un ritorno all'Ue. Brexit
Manifestazione a Londra a favore di un ritorno all'Ue. (ANSA)

LONDRA. – Poco tempo, tanta paura. Manca ormai un mese e una settimana contati al D-day della Brexit e l’incubo di un divorzio alla cieca dall’Ue – senz’accordo e senza reti di protezione – inizia ad assumere sembianze sempre meno spettrali e sempre più concrete nei sonni agitati di molti, in Gran Bretagna e non solo.

Incluso nelle file dei Conservatori di Theresa May e nello stesso governo di Sua Maestà, dove tornano a soffiare – ammesso che si fossero mai placati – venti di rivolta contro la premier, attesa al varco entro mercoledì prossimo da un altro passaggio parlamentare destinato, in caso di nuovo flop della sua idea d’accordo, a ridare fiato al partito trasversale del rinvio: intenzionato a cercare d’imporre la richiesta d’una proroga a Bruxelles (rispetto alla data-kamikaze del 29 marzo) qualora l’unica alternativa fosse davvero quel no deal i preparativi fervono un po’ ovunque in giro per l’Europa: in primis a Dublino, dove l’esecutivo del Paese di gran lunga più esposto dopo il Regno Unito annuncia a malincuore un pacchetto di leggi di emergenza ad hoc per tamponarne l’ipotetico impatto, sebbene sperando di poterlo lasciare alla fine nel cassetto.

Il negoziato supplementare con l’Ue per provare ad aggirare il backstop (la clausola vincolante di salvaguardia del confine aperto fra Irlanda e Irlanda del Nord, sgradito ai falchi della destra governativa di Londra e di Belfast) resta in effetti per ora in stallo. E intanto il progressista Guardian e il conservatore Daily Telegraph fanno per una volta gli stessi calcoli sul fronte della politica interna del Regno: se May insisterà a non togliere dal tavolo l’opzione del taglio netto, come una sorta di aut aut ai deputati (o il mio deal o il salto nel buio), rischia di dover affrontare la ribellione di qualche decine di parlamentari Tories e di 25 membri del suo gabinetto o giù di lì, fra ministri, sottosegretari e alti funzionari.

Un dissenso più che sufficiente, sulla carta, a far passare mercoledì l’emendamento – rimesso in calendario dalla laburista Yvette Cooper e dal conservatore ribelle Oliver Letwin dopo la bocciatura di due settimane fa – che mira a costringere la premier a piegarsi a invocare il placet dei 27 a un’estensione di almeno qualche mese della scadenza di fine marzo piuttosto che giocare col fuoco di una potenziale Brexit senz’intesa.

Le turbolenze non riguardano d’altronde solo la parrocchia Tory, dove secondo il Guardian qualche anonimo ministro non concede più di tre mesi a lady Theresa per portare a termine l’uscita dall’Ue e poi dare strada a “un nuovo leader”. Sull’opposizione laburista di Jeremy Corbyn – reduce da una riunione del Partito Socialista Europeo a Madrid dopo la missione a Bruxelles in cui ha cercato spazi di manovra per il suo piano alternativo in favore di una Brexit più soft – pende la minaccia della defezione addirittura di “decine di deputati”, a credere al Times di Rupert Murdoch, laddove il compagno Jeremy non dovesse sposare pienamente la causa d’un secondo referendum di fronte a uno scacco definitivo della May a Westminster.

Causa che peraltro rischia di spaccare esattamente a metà un partito già scosso in questi giorni da mini scissioni a raffica. Agli otto ‘blairiani’ entrati a far parte di un nuovo Gruppo Indipendente centrista ai Comuni con tre Conservatrici dissidenti, si è aggiunto adesso il deputato Ian Austin, ex fedelissimo di Gordon Brown. Anche lui – figlio di padre ebreo sfuggito alla Shoah – ha sbattuto la porta accusando Corbyn di aver lasciato montare nel Labour “una cultura estremista” di sinistra, “intollerante” quando non “antisemita”, e di non essere “adeguato a fare il primo ministro”.

Ma, a ingarbugliare ulteriormente le carte, Austin a differenza degli 8, a cui non s’è unito, non sventola contro Corbyn il vessillo dei pro Remain irriducibili: e, anzi, ha già votato di recente in favore dell’accordo di divorzio di Theresa May.

(di Alessandro Logroscino/ANSA)

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