La mamma è sempre la mamma

Quadro idilliaco di mamma e figlia su un prato
La mamma

Da millenni, forse dagli inizi umani, “La mamma è sempre la mamma”. La certezza, già traballante per via degli “uteri in affitto”, è ora messa ulteriormente in dubbio da una madre inglese che vuole vedere riconosciuto il suo diritto di essere identificata invece come padre. Ciò lascerebbe il figlio neonato senza una discendenza materna, una circostanza non contemplata dalla giurisprudenza britannica, più abituata ai padri ignoti.

Una Corte in Inghilterra sta esaminando il caso di un uomo transgender—un ex donna, identificato con la sigla “TT”—che ha partorito un figlio, “YY”. Per la giurisprudenza inglese TT, nato biologicamente femmina, è stato “reso” maschio dal Governo britannico attraverso l’emissione di un “Gender Recognition Certificate”.

Questi, di cui ne sono stati rilasciati finora solo 4.910, non prevedono l’obbligo di una “riassegnazione chirurgica” degli organi riproduttivi. Pertanto, a giorni dalla certificazione da maschio, TT ha potuto farsi mettere incinto attraverso l’inseminazione artificiale. Dopo il parto, ha invocato il diritto di figurare ufficialmente come padre e non più madre dell’incolpevole YY.

Ciò però contrasta con altri dispositivi di legge inglesi per i quali chi porta a termine la gravidanza “è considerata la madre” e registrata come tale. Gli avvocati di TT bollano ciò come una forma di discriminazione e sostengono che si debba comunque tenere conto primariamente degli interessi di YY —e che questi sarebbero meglio serviti conformandosi alla “realtà sociale” della nascita anziché a quella “biologica”.

Per lo Stato, documenti ufficiali come certificati di nascita, per servire allo scopo previsto, devono rispecchiare invece la semplice verità—ma qui le “verità” sono due. Intanto, l’opinione pubblica sta perdendo la pazienza con questo genere di teatrini e non vede di buon occhio l’idea di azzerare  legalmente il ruolo delle madri solo per accomodare le idee di un esigua minoranza.

Ciò rende difficilmente proponibile la classica soluzione amministrativa, quella di “aggiustare la terminologia” chiamando—poniamo—tutti gli interessati “genitori”, senza riferimento ai ruoli dei singoli. Implicherebbe inoltre la riscrittura di vaste parti della legislazione sociale inglese, di testamenti, di contratti d’impiego, di polizze d’assicurazione e mille altre cose. Eppure, TT è un uomo. La legge, una parte della legge, un acquisto sociale, lo dice — o no?

Una volta si considerava che “il massimo bene per il massimo numero di persone”—per dirlo con Beccaria prima e col filosofo inglese Jeremy Bentham poi—fosse “il fondamento della moralità e della legislazione”. Da tempo l’enfasi si sposta più sul “bene” che sul “numero”, con l’accoglimento delle istanze di piccole ma vocali minoranze. E non solo per gli umani, come nel caso dei vegani di Los Angeles che tentano di obbligare i canili municipali a servire esclusivamente verdure agli animali ricoverati, agli effetti pratici dichiarando i cani “erbivori” a furor di popolo—o popolino, nel caso.

Il problema è che i cani sono cani, come per molti inglesi le mamme sono mamme. La grande maggioranza, quel “massimo numero di persone”, continua a vedere le cose in questa maniera, alla faccia del progresso sociale. È ancora democrazia se bisogna ignorare la maggioranza per procedere?

(Jim Hansen)