Addio Radice, portò il pressing nell’Italia del catenaccio

Gigi Radice in panchina durante una partita.
Gigi Radice (c) in una foto di archivio. ANSA

TORINO. – Prima di ogni partita, per stemperare la tensione, raccontano che allineasse le scarpe coi tacchetti dei suoi giocatori. Era un perfezionista Gigi Radice, l’allenatore del calcio totale e del pressing a tutto campo, morto al crepuscolo degli 83 anni. Terzino sinistro del Milan che nel 1963 vinse la sua prima Coppa dei Campioni, dovette smettere presto di giocare per un grave infortunio al ginocchio, ma continuò a vincere da allenatore. C’è la sua firma sullo scudetto del 1976, l’ultimo del Torino. Ed anche l’unico del dopo Superga: fu “come aver resuscitato il Grande Torino”, aveva commentato prima che il morbo di Alzheimer, che tutto distrugge, gli togliesse i ricordi.

Radice era nato a Cesano Maderno, nel gennaio del 1935, a 18 anni era passato al Milan e con la maglia rossonera aveva vinto tre scudetti e, appunto, una Coppa dei Campioni. Una carriera troppo presto interrotta dagli infortuni al ginocchio, un calvario cominciato dopo un contrasto con il sampdoriano Cucchiaroni.

Da allenatore aveva cominciato nel Monza, portandolo subito in serie B, poi Treviso, Cesena, Fiorentina e Cagliari prima di approdare al Torino, chiamato sotto la Mole dal direttore generale Beppe Bonetto, morto un anno fa di questi tempi, primo di una lunga serie di lutti che – come nella tradizione del Torino – hanno consegnato alla leggenda pagine della sua storia.

In pochi mesi, se ne sono andati anche Emiliano Mondonico, il tecnico dell’ultimo trofeo granata, la Coppa Italia del 1993, e l’allenatore ‘col colbacco’ Gustavo Giagnoni. Uomini di sport di epoche differenti, ma uniti dal calcio e dall’amore comune per i colori granata. E dire che al suo arrivo a Torino, Radice era stato accolto con diffidenza. La piazza aveva storto il naso, ma al primo colpo è riuscito a costruire l’impresa, riportando il Toro in cima.

Un uomo all’apparenza burbero, schivo, che era riuscito a costruire un gruppo unito ancora tanti decenni dopo, come ricorda il ‘giaguaro’ Castellini, che di quella formidabile squadra era il portiere. Con lui in campo una squadra di veri campioni, Pecci e Graziani, Claudio Sala e Pulici, Mozzini e Zaccarelli – per citarne soltanto alcuni -, con cui l’anno dopo lo scudetto mancò il bis per un solo punto.

Soltanto pochi giorni fa alcuni di loro si erano ritrovati a Torino per il lancio del libro ‘Gigi Radice. Il calciatore, l’allenatore, l’uomo dagli occhi di ghiaccio’, ritratto di un allenatore spesso dipinto come un sergente di ferro ma che – ricorda Pecci – “sapeva essere un uomo molto dolce”. Il modo in cui li faceva giocare stravolse il calcio italiano, fino ad allora legato al concetto di catenaccio. Claudio Sala, il ‘poeta del gol’ che di quel Toro era l’allenatore lo ricorda per questo come “un grandissimo innovatore”, “uno dei grandi allenatori italiani che hanno lasciato il segno”, è l’omaggio del tecnico della Juventus Massimiliano Allegri.

Un “maestro e un papà” per ‘Puliciclone’, al secolo Paolino Pulici, che del Toro di Radice era il bomber. Lo conobbe che non riusciva neanche a centrare lo specchio della porta, lo trasformò in una macchina da gol a furia di farlo tirare contro un muro. “Mi ha aiutato a essere qualcosa di più di un buon calciatore, mi ha aiutato anche a essere un uomo fuori dal campo”, è il suo ricordo commosso.