May nell’arena di Westminster: “La mia Brexit o il caos”

Theresa May nell'arena di Westminster: "La mia Brexit o il caos".
Theresa May nell'arena di Westminster: "La mia Brexit o il caos". (ANSA)

LONDRA. – La buona notizia per Theresa May è che non si è votato oggi. Ma è difficile rintracciarne altre nel dibattito dai toni roventi seguito questo pomeriggio ai Comuni alla dichiarazione con cui la premier conservatrice britannica è scesa nell’arena parlamentare per difendere l’accordo di divorzio dall’Ue sottoscritto a Bruxelles come l’unica strada ormai percorribile. E per avviare la partita verso il voto di ratifica di Westminster, fissato ufficialmente da stasera per l’11 dicembre sullo sfondo di una sfida tutta in salita.

May – provata, ma irriducibile – ha risposto a domande e contestazioni da tutti i fronti per due ore e mezzo. E il suo messaggio è stato martellante: la mia Brexit o il caos. “Non c’è accordo migliore disponibile”, ha avvertito, adombrando in caso di bocciatura lo spettro “dell’incertezza e della divisione”. Forse un ‘no deal’, magari le dimissioni del governo (su cui però ha glissato), sicuramente “il ritorno alla casella 1”.

La premier ha ammesso che il testo portato a casa dopo mesi di estenuanti trattative e di tira-e-molla è inevitabilmente un compromesso che non può “soddisfare al 100%” nessuno. L’epilogo di un braccio di ferro uno contro 27 nel quale Londra (anche se lei questo non lo ha detto esplicitamente) ha dovuto fare il grosso delle concessioni. Un testo che comunque, nella sua lettura, è “giusto per il Regno Unito” e rispetta “la volontà democratica espressa dal popolo” nel referendum del 2016.

Le rassicurazioni, oltre alla conferma della data del 29 marzo 2019 per l’uscita formale dall’Unione, riguardano in prima battuta “l’integrità” del Regno, dalla sovranità su Gibilterra al legame con l’Irlanda del Nord. Anche se la sola garanzia sugli effetti ipotetici del cosiddetto backstop – il meccanismo di salvaguardia del confine aperto fra Belfast e Dublino preteso dall’Ue – si limita a fondarsi sul fatto che “entrambe le parti” confidano di “non farlo entrare in vigore”.

Troppo poco per placare i dissensi, che arrivano concentrici da ogni lato. Dall’opposizione il leader laburista Jeremy Corbyn evoca “un atto di autolesionismo nazionale”, si dice convinto che May non abbia più il consenso del Parlamento né del Paese e proclama il ‘no’ dei suoi alla ratifica.

Aprendo al massimo uno spiraglio su quel piano B che la premier (e Jean-Claude Juncker) affermano essere a questo punto fuori questione, ma che il Labour è certo possa tornare sul tavolo se la discussione in aula fra il 4 e l’11 dicembre sfocerà davvero in una bocciatura.

Un piano B “sensato”, nelle parole di Corbyn, e che secondo i media potrebbe tradursi magari in un modello ‘Norvegia plus’: una sorta di semi-Brexit, con adesione di Londra allo Spazio economico europeo (See) e permanenza nell’unione doganale. Ma il problema non è solo all’opposizione, fra i cui banchi LibDem, indipendentisti scozzesi dell’Snp e diversi deputati laburisti continuano a guardare all’orizzonte d’un ipotetico secondo referendum a dispetto del muro di May e delle esitazioni dello stesso Corbyn (che punta semmai a elezioni anticipate).

E’ soprattutto nel gruppo Tory, dove si alternano i ‘non possumus’ pronunciati con argomenti agli antipodi da brexiteeers di spicco quali Boris Johnson e David Davis, giunti a denunciare il piano May come “una resa” e “un’umiliazione”; da ‘eurofili’ come Anna Soubry, Justine Greening o Dominic Grieve, schierati per la rivincita referendaria; e persino da un grigio lealista di centro come l’ex ministro Michael Fallon. Una ribellione di peso e dimensioni apparentemente irreparabili per lady Theresa: salvo che il voto dell’11 non riveli un clamoroso bluff.

(di Alessandro Logroscino/ANSA)

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