Khmer rossi, gli ultimi leader condannati per genocidio

Khmer rossi, condannato a lavorare in campo circondato da teschi.
Sentenza storica in Cambogia sui crimini del regime di Pol Pot. (ANSA/AP Photo/Jeff Widener, File)

BANGKOK. – Sono anziani e non pentiti del loro ruolo in crimini contro l’umanità, per i quali erano già in carcere. Nuon Chea (92 anni) e Khieu Samphan (87), gli ultimi due leader dei Khmer rossi ancora in vita, da oggi sono però colpevoli anche per il reato di genocidio. La condanna si riferisce ai massacri della minoranza vietnamita e di quella musulmana Chan, solo una parte delle 1,7 milioni di vittime del regime di Pol Pot, e c’è la seria possibilità che sia l’ultimo emesso dal tribunale misto dell’Onu per quegli orrori.

Nuon Chea, il ‘fratello numero due’ considerato lo spietato ideologo del regime, è stato riconosciuto colpevole di genocidio e crimini contro l’umanità contro entrambe le minoranze, mentre l’ex capo di Stato della ‘Kampuchea democratica’ Khieu Sampan è stato condannato per gli stessi reati ma solo contro la minoranza vietnamita, crimini “su scala enorme da lui incoraggiati e legittimati”.

Il giudice cambogiano Nil Nonn, leggendo la sentenza, ha elencato i crimini appurati dal tribunale, tra cui omicidi, sterminio, schiavitù, torture, deportazioni, persecuzioni razziali e religiose, stupri, matrimoni forzati. Gli interrogatori e le esecuzioni erano approvate “dai più alti quadri, tra cui Nuon Chea”.

I due anziani leader, già condannati nel 2014 per crimini contro l’unità, erano presenti in aula. Nuon Chea, citando motivi di salute, ha però chiesto e ottenuto di essere trasportato in una stanza adiacente prima della lettura della sentenza; Khieu Sampan ha ascoltato impassibile le parole del giudice. Gli avvocati difensori hanno già annunciato di voler fare ricorso, accusando il tribunale di aver dato una versione dei fatti creata ad arte per giustificare l’esistenza della stessa corte.

Il verdetto costituisce probabilmente il culmine di un ciclo giudiziario iniziato lo scorso decennio, e costato oltre 300 milioni di dollari. Un’operazione che è stata criticata da più parti, anche per gli scarsi risultati ottenuti: l’unico altro condannato è Kaing Guek Eav (conosciuto come ‘comandante Duch’), che era a capo del carcere-lager di Tuol Sleng. Altri due alti leader finiti in carcere sono morti prima della sentenza, e la morte di Pol Pot risale al 1998.

Il tribunale dell’Onu ha subito costanti pressioni dal governo cambogiano di Hun Sen, un ex Khmer rosso che disertò e ritornò in patria con i liberatori vietnamiti: le indagini contro altri quattro ex funzionari sono state bloccate proprio per il veto di Hun Sen, secondo cui avrebbero rischiato di far precipitare il Paese nell’instabilità.

Per i sopravvissuti del regime, vedere in carcere gli anziani leader rappresenta una vittoria simbolica, seppure a quattro decenni di distanza. Ma in una Cambogia dove due terzi della popolazione ha meno di trent’anni, spesso con una conoscenza scarsa di quegli eventi anche per la reticenza dei parenti più anziani nel raccontarli, arrivare a un riconoscimento giudiziario del “genocidio cambogiano” che comprenda la totalità di quel quarto della popolazione cambogiana morta all’epoca sarà probabilmente impossibile.

Hun Sen, che negli ultimi due anni ha applicato un giro di vite contro il dissenso, aveva sopportato il tribunale solo per tenere buoni i donatori occidentali. Ora che il suo governo gode del solido sostegno della Cina, un tempo alleata di Pol Pot, il ciclo della giustizia si chiude qui.

(di Alessandro Ursic/ANSA)