Assange appeso a un filo, Moreno prepara exit strategy

Assange dal balcone dell'ambasciata Ecuador a Londra
Assange dall'ambasciata Ecuador a Londra

LONDRA. – I mesi, se non i giorni, della permanenza di Julian Assange nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove trovò asilo 6 anni fa, potrebbero essere contati. A lasciarlo intendere ormai esplicitamente sono i messaggi del presidente del Paese andino in persona, Lenin Moreno, che interpellato sull’argomento a Madrid, dove si trova in visita reduce da colloqui riservati avuti guarda caso nei giorni scorsi nella capitale britannica, ha messo in chiaro che il tempo è sul punto di scadere. Giurando di voler assicurare al fondatore di Wikileaks le garanzie necessarie, ma in sostanza ammettendo di aver avviato i negoziati per una qualche ‘exit strategy’.

Moreno ha affermato che “prima o poi” Assange dalla sede diplomatica londinese di Quito, dove vive da rifugiato dal giugno del 2012; che non è pensabile prolungarne il soggiorno “per troppo tempo”; che lo stesse condizioni di questa reclusione volontaria pesano sui “diritti umani” dell’attivista australiano. Insomma, un giro di parole per dire in soldoni che la protezione garantita dal suo predecessore Rafael Correa – ora in disgrazia e ricercato in patria – non vale più come prima.

Certo, Moreno ha puntualizzato che la faccenda va risolta attraverso “il dialogo” e che l’Ecuador vuole la certezza che la vita di Assange non sia poi “messa in pericolo”. Ma s’è limitato a richiamare la salvaguardia della pelle dell’uomo a cui pure il suo Paese ha concesso formalmente asilo politico, non quella della sua libertà.

Un dettaglio di non poco conto di fronte ai sospetti crescenti avanzati da amici e sostenitori di Assange nei confronti del nuovo presidente: impegnato in modo piuttosto plateale a liquidare l’eredità – ribelle e ‘socialista’ – del suo ex mentore Correa, a riallinearsi agli Usa e all’occidente, ad archiviare i dossier più scomodi.

A cominciare proprio da quello di una figura quale l’artefice di Wikileaks, considerato una ‘primula rossa’ a Washington e che lui stesso non ha esitato a bollare di recente come “un hacker”, dopo averlo messo a tacere da mesi facendogli tagliare l’accesso al telefono, a internet, a qualunque visita. Uno scenario che secondo i seguaci, gli amici e i legali di Julian potrebbe preludere al “tradimento” definitivo: ossia a un’espulsione di fatto, comunque mascherata, e alla consegna a Scotland Yard.

Tappa intermedia di una verosimile estradizione finale verso gli Usa, furiosi con l’australiano fin dalla colossale pubblicazione d’imbarazzanti documenti diplomatici e militari top secret – attraverso testate come il Guardian o il New York Times – datata 2010; e ulteriormente motivati dai sospetti del Russiagate.

In effetti le accuse della giustizia britannica contro Assange, prese da sole, sono di scarso peso: aver ignorato sei anni fa una convocazione della magistratura di Londra chiamata a interrogarlo su richiesta della Svezia per un controverso caso di presunti abusi sessuali nel frattempo fatto cadere dalla medesima procura di Stoccolma. Mentre l’ipotetica domanda di estradizione americana (che ufficialmente non esiste, ma che molti ritengono essere stata già preparata sotto banco) avrebbe ben altro contenuto.

Come osserva fra i tanti, allarmato, Glenn Greeenwald, reporter che fu in prima fila dalle colonne del Guardian nelle diffusione delle rivelazioni del 2010 e che ora vive in Brasile dove dirige The Intercept, sito di giornalismo d’inchiesta anticonformista. Greenwald si dice convinto che nelle mani di Moreno il destino di Assange possa essere segnato nel giro “di poche settimane. Forse di giorni”.

(di Alessandro Logroscino/ANSA)

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