Stato-mafia: trattativa accelerò la strage di via D’Amelio

Una gigantografia di Paolo Borsellino
Una gigantografia di Paolo Borsellino

PALERMO. – In 37 anni in magistratura non ha mai depositato una sentenza fuori termine. Un record che in molti ritenevano avrebbe infranto nel processo più importante della sua carriera. Ma Alfredo Montalto, presidente della corte d’assise di Palermo che ha celebrato il dibattimento sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, ha smentito le previsioni e allo scadere dei 90 giorni, termine annunciato per il deposito delle motivazioni della sentenza, ha consegnato la sua verità su uno dei periodi più bui del Paese, quello delle stragi mafiose degli anni ’90.

Il caso ha poi voluto che il mastodontico provvedimento – oltre 5000 pagine – che ricostruisce i rapporti che pezzi dello Stato ebbero con cosa nostra in quel periodo sia stato depositato in un giorno particolare: quello del 26esimo anniversario della strage costata la vita a Paolo Borsellino e agli agenti della scorta. Un capitolo importante del provvedimento della corte è dedicato proprio all’attentato di via D’Amelio la cui esecuzione, a parere dei giudici, sarebbe stata accelerata proprio dalla cosiddetta trattativa.

“Ove non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla ‘trattativa’ – scrive la corte – conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato”.

Un’accusa forte all’iniziativa degli ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, condannati a pene pensantissime per il reato di minaccia a Corpo politico dello Stato, e alla loro decisione di avviare un contatto con i boss corleonesi di Riina attraverso l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Duro il giudizio su una scelta definita dai giudici scellerata.

“Subranni, Mori e De Donno, qualunque fossero le ragioni che li animarono, hanno di fatto consapevolmente reso attuale il proposito criminoso di Riina, da un lato aprendo il canale di comunicazione tramite Vito Ciancimino, e dall’altro esortando i vertici mafiosi a formulare le condizioni per la cessazione delle stragi e dunque a formulare la minaccia e il ricatto mafioso”.

E un lunghissimo capitolo della sentenza è dedicato a Marcello Dell’Utri, condannato a 12 anni, come i carabinieri, per minaccia a Corpo politico dello Stato. Come i militari del Ros avrebbe rafforzato il piano criminale di Riina “con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata nella sua funziona di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, rafforzò il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992”.

“Per anni, fino al 1994 almeno, – spiegano poi – fu intermediario tra l’ex premier e la mafia”. Prova ne sarebbero i pagamenti che le società dell’ex presidente del Consiglio avrebbe fatto avere ai clan. E se pur non ci sono prove dirette “dell’inoltro della minaccia mafiosa da Dell’Utri a Berlusconi ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano”.

Oltre 500 pagine del provvedimento sono dedicate al superteste e imputato del processo Massimo Ciancimino, condannato a 8 anni per avere calunniato l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. La corte in qualche modo “giustifica” le contraddizioni nelle sue testimonianze come mosse dal desiderio di mostrarsi credibile. Mentre esce totalmente scagionato dalle accuse di falsa testimonianza l’ex ministro Dc Nicola Mancino che, per i pm, sarebbe stato messo al posto di Vincenzo Scotti al Viminale per la sua linea soft contro le cosche. “Non c’è nessuna prova”, scrivono i giudici.

(di Lara Sirignano/ANSA)

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