Quanto vale oggi, un Perù?

Pedro Pablo Kuzcynski, 79 anni, accusato di grave e comprovata corruzione, si è dimesso.

La corruzione era già estesa nel Perù del vicereame imposto dalla Conquista spagnola, 500 anni fa. Onestà e trasparenza non sono mai state qualità dell’Eldorado. Altre sono la natura del mito e le sue suggestioni, sempre iperboliche. Tuttavia in sostituzione dell’oro esaurito e delle fantasie svanite, il Perù moderno ha aggiunto alle antiche meraviglie quelle della modernità. Un turismo in fortissima crescita ne è testimone costante. Città vibranti di commerci, industrie pesanti e leggere (dalla siderurgia al tessile reso fantasmagorico dall’originalità dei colori), rame, argento, cemento e pesca sommano uno dei maggiori export del Sudamerica. Senza però che il paese abbia abbattuto i muri delle storiche divisioni etniche e sociali, intonacati di reciproci risentimenti.

Gli indios arrampicati sui picchi andini, dispersi nella selva amazzonica, rannicchiati in borgate di lamiera e cartone; il meticciato ammucchiato negli agglomerati suburbani; la classe media al 90 per cento bianca nel comfort dei quartieri alti, resa però inquieta dalle sue stesse frange intellettuali e idealiste disperse tra le università e le periodiche convulsioni dell’utopia guerrigliera: ciascuno chiuso nel proprio universo separato. Nelle società sgretolate più facilmente la corruzione diventa sistematica, infetta tutto, imputridisce le istituzioni. E genera ovunque -ben oltre il Perù e l’America Latina-, più rabbia che vero ripudio. Vale tenerne conto. E’ in tale contesto che l’ultimo presidente della Repubblica, l’economista Pedro Pablo Kuzcynski, 79 anni, accusato di grave e comprovata corruzione, si è dimesso. Più che una rinuncia, la sua è una fuga.

Lo inseguono intrighi e ricatti di cui è l’ideatore o il complice consapevole. Colonne di manifestanti attraversano ogni giorno Lima, Arequipa, Ayacucho, Cuzco, i più importanti centri urbani, chiedendo che venga processato e condannato dalla giustizia ordinaria. Tutti conoscono le confessioni del dirigente dell’impresa di costruzioni brasiliana Odebrecht (la stessa che in cambio di appalti pubblici ha corrotto presidenti e ministri in tre quarti di Sudamerica e in Medioriente), che gli ha consegnato una super-tangente: tre milioni di dollari; tutti hanno visto i video in cui veniva negoziato l’indulto poi da lui concesso all’ex presidente Alberto Fujimori, in carcere per assassinio, tortura e alto tradimento, al fine di ottenere l’appoggio parlamentare indispensabile a sfuggire all’impeachment.

Quella dei capi di Stato peruviani perseguiti dallo scandalo e dalla legge è ormai una saga. Nel 1990, il Perù ristagna tra l’economia ferma e la società bloccata. Alle elezioni presidenziali, Alberto Fujimori, un ingegnere agronomo di origini giapponesi presentatosi come uomo forte e modernizzatore, sconfigge il celebre scrittore Mario Vargas Llosa, passato dal socialismo al neoliberismo. Il neo-presidente azzoppa presto la già provata democrazia. Una notte, in una Lima in stato d‘assedio, Gustavo Gorriti, colto e coraggioso giornalista d’investigazione, racconta al collega Maurizio Chierici e a me che la censura vuol chiudere la sua emittente TV. Per nascondere che il governo tratta segretamente con Tokio la cessione di basi strategiche; mentre il capo dei servizi segreti, Vladimiro Montesinos, traffica armi e droga, e l’esercito combatte la guerriglia rivoluzionaria con arresti ed esecuzioni clandestini, massacri di studenti e contadini inermi.

Le frequenti visite di unità navali giapponesi e le centinaia di pescherecci oceanici ormeggiati in permanenza nelle rade del Callao, di El Chimbote, di Paita, cominciano a preoccupare anche il governo di Washington. A Lima aumenta vistosamente il personale delle ambasciate degli Stati Uniti e d’Israele. Direttamente dalle altre capitali latinoamericane e attraverso l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), aumentano le pressioni sul governo peruviano. Filtrano rivelazioni compromettenti, che cominciano a sfaldarlo. Nel novembre 2000 Fujimori è costretto a fuggire, vola in Giappone. Quando nel 2001 lo accompagno in qualche viaggio della campagna elettorale che lo condurrà alla Presidenza, Alejandro Toledo mi conferma tutte le accuse che costringeranno infine Fujimori al processo e a 25 anni di carcere per gravissime violazioni dei diritti umani.

Nato in una misera famiglia indigena, giovane e brillante economista con esperienza internazionale, Toledo accende grandi speranze di rinnovamento. Purtroppo deluse dal sostanziale insuccesso delle sue riforme neoliberiste. A cui sono seguite nel tempo le accuse di corruzione: anch’egli avrebbe ricevuto tangenti per 20 milioni di dollari dall’impresa brasiliana Odebrecht. Attualmente è rifugiato negli Stati Uniti. La richiesta di estradizione della giustizia peruviana gli imputa i reati di riciclaggio e conflitto d’interessi. Dopo di lui, uno scandalo analogo ha colpito Alan Garcia, personaggio storico della politica peruviana, anch’egli coinvolto negli scandali Odebrecht. E’ indagato, non ancora incriminato. Mentre il successore, Ollanta Humala, è finito in carcere; cosi come la moglie, Nadine Heredia. I muri che separano gli inclusi dagli esclusi dei 33 milioni di peruviani sono gli stessi che alzano l’ombra della prigione su tanti loro presidenti.

Livio Zanotti

Ildiavolononmuoremai.it

 

 

Lascia un commento