Il Pd spera di tornare in gioco, ma le divisioni lo bloccano

Maurizio Martina ed Orfini.
Maurizio Martina. (Foto ANSA)

ROMA. – Non farsi schiacciare nel ruolo di spettatori complici di un accordo tra M5s e centrodestra. E’ questo il risultato che il Pd tutto vanta, mentre i “vincitori” delle elezioni si incartano sulla scelta dei presidenti delle Camere. In una partita in cui i Dem giocano di rimessa e rischiano di non toccare palla, guardano con sollievo alla “ripartenza” delle trattative. Tornano a sperare i “dialoganti”, che vorrebbero trattare ora sulle presidenze delle Camere e magari domani sul governo.

Ma le mosse del Pd sono ingessate dalle sue divisioni: chi tifa perché salti l’intesa tra M5s e centrodestra, ammette che da qui a eleggere un nome Dem (quale, poi?) ce ne passa. E anche sulla scelta dei capigruppo il braccio di ferro porta a un rinvio: Luigi Zanda si fa portavoce di chi vuole che almeno uno dei due nomi sia “non renziano”, ma gli uomini vicini a Matteo Renzi si dicono pronti “alla conta”.

“Cambiare metodo, ripartire da zero”, per individuare “figure di garanzia” per la presidenza delle Camere: è questa la linea su cui si attestano i Dem fin dal mattino, con le dichiarazioni di Maurizio Martina, Ettore Rosato, Lorenzo Guerini. E’ la linea emersa dal “caminetto” di mercoledì notte e condivisa anche dai renziani, che alla riunione hanno dato forfait.

Nelle prime votazioni ci si asterrà con la scheda bianca: qualcuno accarezza l’idea di scrivere il nome di un Dem come Zanda per ‘contarsi’, ma in questo momento il Pd cerca di evitare proprio le conte. In serata Rosato dice che i Dem non voteranno Paolo Romani, come del resto – spiegano dal partito – non voterebbero Roberto Fico alla Camera: ma Romani è figura gradita a un ampio fronte Dem, il non voto aprirebbe la strada alla sua elezione.

In giornata c’è chi avanza altre ipotesi, che si farebbero largo se saltasse l’intesa M5s-centrodestra. Trattare con il centrodestra per eleggere Emma Bonino al Senato, o un nome come Dario Franceschini o Piero Fassino alla Camera. Ma così, spiegano fonti franceschiniane, non solo si presterebbe il fianco alle accuse di ‘inciucio’ del M5s, ma l’accordo rischierebbe di non tenere perché alla Camera Pd e centrodestra anche sommati non hanno una maggioranza schiacciante, potrebbero ‘vincere’ i franchi tiratori.

E poi, nonostante le smentite, fioccano i sospetti che un accordo sia preludio a un’intesa sul governo. Per tutte queste ragioni, i Dem si concentrano più sulle vicepresidenze: c’è chi ipotizza che alla Camera possa andare Rosato, al Senato Anna Rossomando, orlandiana. Ma è una partita successiva, che si intreccia con quella dei capigruppo.

Martina, che prova a tenere il Pd unito, in mattinata vede Luca Lotti e in serata, nell’aprire – Renzi assente – la prima riunione dei gruppi Dem, rende onore all’ex segretario. A tutte le aree del partito il reggente garantisce collegialità e si prende un mandato a ricomporre rispettando gli equilibri. Ma i renziani tengono alta la guardia (“Mostrano i muscoli a ogni occasione”, osserva un dirigente Dem) e la minoranza aspetta il reggente alla prova dei fatti. Di fatto, un braccio di ferro.

Nella riunione notturna del Nazareno Zanda, Marco Minniti, Andrea Orlando e anche Dario Franceschini invocano collegialità, che vuol dire un capogruppo ‘non renziano’. Matteo Orfini difende a spada tratta i due nomi sul tavolo, di renziani dialoganti: Lorenzo Guerini e Andrea Marcucci. Sono ancora loro i nomi più quotati, i renziani assicurano di avere i numeri per eleggerli da soli, gli altri scommettono di no. Ma nessuno vuole andare alla conta. Dunque, si tratta. I conciliaboli proseguono prima e dopo l’assemblea dei gruppi Dem, riconvocati per venerdì mattina. I capigruppo potrebbero essere votati martedì.

(di Serenella Mattera/ANSA)