Chi resta e chi va

Neolaureato seduto su una valigia con lo sticker dell'Università Bocconi.
Neolaureato seduto su una valigia con lo sticker dell'Università Bocconi.

Pochi giorni prima del Santo Natale il Ministro Poletti, Ministro del Lavoro, durante una visita a Fano nelle Marche, interrogato dai giornalisti sui temi del lavoro in generale e nello specifico sui “cervelli in fuga” ha dato una risposta (https://www.youtube.com/watch?v=Z9sINc98cwQ) che ha sollevato moltissime polemiche e critiche accompagnate da numerose richieste di dimissioni.

Certo il tema non era dei più agevoli al contrario è uno dei più delicati ed è molto sentito nel paese, non era facile dare una risposta. Oggettivamente poi il Ministro è stato irrispettoso nei toni e nella conclusione ma soprattutto la sua affermazione è sintomatica del modo in cui questo problema così complesso venga affrontato: con retorica e superficialità due modalità che non aiutano la comprensione di quanto sta accadendo.

Come sappiamo negli ultimi anni nel nostro paese si è ripresentato il fenomeno dell’emigrazione: una “nuova emigrazione Italiana”. Se dessimo un’occhiata al “Rapporto Italiani nel Mondo 2016” compilato dalla Fondazione Migrantes (organo della CEI Conferenza Episcopale Italiana) vedremmo come nel 2015 si siano trasferiti all’estero 107.529 Italiani. Dato questo sicuramente inferiore alla realtà poiché si basa sul numero degli iscritti all’AIRE (Anagrafe Italiana Residenti Estero) e, soprattutto in Europa, molti nostri connazionali non si registrano.

Una delle caratteristiche di questa “nuova emigrazione Italiana” è la presenza di un alto numero di laureati. Infatti sui 107.000 connazionali emigrati il 30%, circa 23.000 persone (dato Istat), sono laureati con più di 25 anni.

Il numero di emigrati in verità è aumentato anche fra coloro che hanno un titolo di studio più basso, tuttavia il rapporto tra il totale degli italiani in possesso di laurea, circa il 18% della popolazione (dato Ocse), e il numero dei laureati emigrati indica come ci sia tra i giovani laureati una tendenza a emigrare più alta che in altre fasce della popolazione. Questa tendenza fa sì che si parli appunto di “fuga dei cervelli”.

Come ci si può approcciare a un problema così per poterne comprendere il più correttamente possibile le cause? Come possiamo spiegare un fenomeno che rappresenta una perdita in termini di risorse umane per il paese?

La prima cosa che verrebbe da pensare è che il nostro paese ha già avuto una storia di emigrazioni e forse in quella storia possiamo trovare delle spiegazioni, dei punti di riferimento, che ci aiutino a capire le ragioni di quanto accade oggi.

Se guardassimo a livello nazionale ci accorgeremmo che in realtà questo non è un fenomeno nuovo: da decenni abbiamo una emigrazione interna, sull’asse sud – nord, che ha drenato moltissimi elementi qualificati dalle regioni più povere verso le regioni più ricche.

E non è nuovo neanche considerando la mobilità geografica dalla penisola verso l’esterno anzi l’emigrazione Italiana “qualificata” (tecnici, artigiani, architetti, musicisti, pittori, finanzieri, soldati, religiosi) è sempre esistita ed è stata la più antica e la più costante nel tempo. Dal medioevo in avanti infatti l’Europa tutta ha sempre visto la presenza di Italiani nelle principali città e corti dove prestavano servizio offrendo le loro competenze.

Un tipo di emigrazione che non è mai cessata anche quando la migrazione di massa, più dolorosa e traumatica, sulla spinta di motivi economici prende prepotentemente il sopravvento.

Per esempio come non ricordare che negli anni della “Grande Migrazione”, dal 1870 al 1915, insieme all’esodo verso le Americhe coesisteva un movimento, piccolo numericamente, verso l’area del mediterraneo orientale, Impero Ottomano soprattutto, formato da avvocati ingegneri, medici, tecnici specializzati, che cercavano li opportunità più consone alla loro professionalità.

Anche negli anni 80 e 90, quando la necessità di espatriare per ragioni economiche era praticamente nulle, molti ragazzi o persone adulte hanno comunque scelto di andare in altri paesi per ambizione, lauti compensi, perché dipendenti di aziende italiane o semplicemente per spirito di avventura.

Alla luce di quanto detto allora non ci si dovrebbe sorprendere più di tanto, la “fuga di cervelli” di oggi potrebbe essere la conferma di una vocazione internazionale che gli Italiani hanno sempre avuto, e quindi teoricamente non sarebbe neanche necessario fare qualcosa per impedirla dato che così è sempre stato.

Potremmo fermarci qui dato che avremmo già trovato una spiegazione, ma poiché ogni epoca ha le sue specificità possiamo pensare anche che la storia potrebbe non essere sufficiente a comprendere perché l’emigrazione dei primi anni del duemila sia o sembri qualcosa di nuovo.

Un ulteriore elemento che spiegherebbe il clamore e l’attenzione al tema potrebbe essere che esiste un problema di percezione: perché rimaniamo sorpresi di fronte a un qualcosa che in fondo abbiamo già vissuto? La risposta è che gli Italiani non sono probabilmente più abituati a pensare a loro stessi come emigranti. Lo sviluppo economico dagli anni 60 del 900 in poi aveva fatto sì che il sistema Italia potesse assorbire, anche se in modo non uniforme sul territorio nazionale, l’offerta di lavoro sia qualificato che non. Conseguentemente può essere anche che la nostra classe dirigente e i mezzi d’informazione non siano preparati a raccontare e a spiegare quanto sta accadendo.

Volendo invece dare delle motivazioni più concrete ritengo che le ragioni per cui molti laureati espatrino siano sostanzialmente due e di natura completamente diversa:

Il primo motivo, meno percettibile e difficilmente misurabile in termini numerici ma che non possiamo assolutamente ignorare, è il fattore culturale. Negli ultimi 30 anni circa, grazie alla progressiva integrazione, è stata facilitata la mobilità all’interno dei paesi della Comunità Europea, si pensi al trattato di Schengen oppure più banalmente all’avvento delle compagnie low cost. A livello universitario sono state portate avanti politiche per incoraggiare i giovani a fare esperienze all’estero, sono state messe a loro disposizione fondi, borse di studio e programmi d’intercambio di cui l’Erasmus, nato nel 1987, è solo il più famoso. Si sono formate quelle che sono state appunto definite le “generazioni Erasmus”, giovani che si sono abituati a pensare sé stessi non più solo in rapporto al paese d’origine ma in rapporto all’Europa tutta.

Chiaramente tutto questo lavoro ha cominciato a produrre dei frutti. Per molte persone oggigiorno spostarsi non rappresenta più un limite insuperabile anzi è una sfida alettante, e questo approccio è molto più diffuso di quanto si creda, indipendentemente dal livello di preparazione raggiunto e dall’età.

L’altro motivo, ed è l’aspetto realmente più preoccupante in termini di proiezioni future, è di natura economica e sistemica. Negli ultimi anni in Italia stiamo assistendo a un lento processo di deindustrializzazione del paese e di conseguenza ci sono meno aziende che possono assumere personale, qualificato o meno che sia.

Se al primo motivo è difficile opporsi perché entriamo nella sfera delle scelte personali, nel secondo caso è tutto molto più complesso.

Ancora oggi probabilmente sono molti quelli che espatriano spinti da un “motivo culturale”, ma se persisterà questa situazione economica e non verranno elaborate politiche che invertano il trend, rimettendo il sistema Italia in grado di offrire maggiori opportunità, il loro numero si assottiglierà sempre di più per lasciare definitivamente il campo a chi emigra per necessità.

Rilanciare il paese non è impossibile, non dobbiamo dimenticare mai che, per quanto sia difficile la situazione attuale, viviamo in un paese che ha ancora molto da dare. Abbiamo ancora un tessuto produttivo, che per quanto ferito non è morto, abbiamo maestranze e tecnici capaci, abbiamo ancora le nostre risorse più grandi: la nostra intelligenza e la nostra conoscenza, i nostri beni più preziosi! quelli che fanno sì che molti giovani e meno giovani, laureati e non, vengano apprezzati, ottengano buoni risultati, molto spesso prestigio e riconoscimenti, quando poi vanno all’estero.

È vero ci sono dei vizi che non riusciamo ancora a contenere entro limiti fisiologici. In troppi in Italia hanno la strada spianata perché “figli di”, ”amici di”, “membri del” etc., ma ringraziando il cielo, non sono la maggioranza.
Il paese è pieno di persone che si sono costruite una carriera, una professione, o semplicemente si sono trovate un lavoro senza aver avuto santi in paradiso o tessere di partito. Persone che tutti i giorni con il loro operato contribuiscono al benessere di questo paese.

Sicuramente però quello che non va bene è come viene affrontata e soprattutto raccontata questa “nuova emigrazione”. Una narrazione semplificata e superficiale che crea antagonismi e contrapposizioni artificiosi tra chi è rimasto e chi è partito, che non rende giustizia né agli uni né agli altri e non aiuta la ricerca di soluzioni.

Espatriare o rimanere sono due scelte legittime con pari dignità. Sia chi espatria, con tutte le difficoltà umane e materiali che questo comporta, sia chi decide di rimanere sapendo che non godendo di canali preferenziali dovrà faticare magari di più, sono la dimostrazione che ci sono ancora moltissimi italiani che non vogliono mollare che hanno aspirazioni, voglia di emergere e fiducia in un futuro migliore

Stefano Macone